martedì 19 marzo 2024   ::  
 

 

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Il Tractatus logico-philosophicus 

 

LUDWIG WITTGENSTEIN

 

di Sara M. Fabriano 

 

Il Tractatus logico-philosophicus, insieme ad un libro di testo per le scuole elementari austriache (1926) e al breve saggio Some remarks on Logical Form (1929), è l’unico scritto dato alle stampe in vita da Ludwig Wittgenstein. L’opera ebbe una gestazione piuttosto lunga e travagliata. Il primo progetto di un’opera filosofica risale probabilmente al 1911. In quel periodo Wittgenstein si trovava a Manchester per proseguire i suoi studi di ingegneria aeronautica. La lettura delle opere di Gottlob Frege e quella dei Principles of Mathematics di Bertrand Russell avevano dischiuso al giovane Ludwig l’orizzonte degli studi di logica e filosofia, distogliendolo progressivamente dai suoi interessi originari. Nell’estate del 1911 Wittgenstein si recò a Jena e discusse dei suoi progetti filosofici con Frege, il quale gli suggerì di stabilirsi a Cambridge per studiare sotto la guida di Bertrand Russell. L’incontro di Wittgenstein con l’autore dei Principia Mathematica avvenne il 18 ottobre di quell’anno e fu così descritto da Russell: “Comparve un tedesco affatto sconosciuto che parlava inglese con difficoltà e che tuttavia si rifiutava di esprimersi in lingua tedesca. Alla fine risultò uno che aveva studiato ingegneria a Charlottenburg, ma che nel corso di tali studi s’era appassionato, in modo del tutto autonomo, alla filosofia della matematica, per cui sarebbe arrivato qui a Cambridge con la ferma intenzione di assistere alle mie lezioni”.[1]

Ma Wittgenstein non si limitò ad “assistere” alle lezioni: egli iniziò infatti un vivace confronto con Russell mettendone in discussione le teorie ed elaborando idee originali che risultavano spesso in conflitto con quelle del maestro. “Il mio tedesco minaccia di trasformarsi in una pestilenza: al termine delle lezioni mi vien dietro e non la smette di argomentare fino all’ora di cena. Ostinato e spietato, non mi sembra però affatto stupido”.[2] Pur dovendo far fronte agli attacchi continui di Wittgenstein (le cui critiche si rivolgevano soprattutto alla Teoria dei tipi logici), Russell mostrava di apprezzare le grandi doti intellettuali del suo allievo e col passare del tempo si rese conto che il prossimo contributo di rilievo nel campo della logica matematica sarebbe venuto proprio dal “suo tedesco”. Prima di dedicarsi completamente alle nuove discipline di studio, però, Wittgenstein aveva un disperato bisogno di conferme, come testimonia il seguente episodio: “Alla fine del suo primo trimestre a Cambridge, Wittgenstein venne da me e mi chiese: ‘Può dirmi, per favore, se sono un idiota completo o no?’. Gli risposi: ‘Caro amico, non lo so proprio. Ma perché me lo chiede?’. E lui: ‘Perché se sono un idiota completo farò il pilota d’aereo, se no farò il filosofo’. Gli dissi di scrivermi qualcosa, durante le vacanze, su un qualche argomento filosofico, e poi gli avrei detto se era un idiota completo o no. Seguì il mio consiglio e all’inizio del trimestre successivo mi portò il suo elaborato. Dopo averne letto una sola frase gli dissi: ‘No, lei non deve fare il pilota d’aereo’ ”.[3]

Wittgenstein iniziò a lavorare ai problemi di logica con incredibile energia. “Ha il temperamento dell’artista – scriveva di lui Russell in quel periodo- è intuitivo e lunatico. Dice che tutte le mattine inizia il lavoro sotto il segno della speranza e tutte le sere lo conclude nella disperazione”.[4] Nel febbraio del 1912 Wittgenstein fu ammesso al Trinity College ed iniziò a seguire i corsi di logica. Come già accaduto nei suoi incontri con Russell, egli si dimostrò un allievo piuttosto difficile. “Prese a farmi lezione sin dal nostro primo incontro” dichiarò seccato uno dei suoi professori.[5]

Durante il suo soggiorno a Cambridge, negli anni 1912-1913, Wittgenstein strinse amicizia con il filosofo G. E. Moore e con l’economista J. M. Keynes. Su richiesta di Russell, nel 1913 egli si decise a mettere un po’ di ordine nei propri appunti e a scrivere un resoconto dei progressi fino ad allora compiuti. Wittgenstein era ossessionato dall’idea di morire prima di essere riuscito a completare il proprio lavoro. Il suo amico David Pinsent annotò nel proprio diario: “[Wittgenstein] ha un terrore morboso di morire prima di mettere a punto quella teoria [ovvero la revisione della Teoria dei tipi, ndr], e prima di aver messo per iscritto tutti gli altri lavori di modo che risultino comprensibili al mondo e di qualche utilità per la scienza logica. Ha già scritto molto, Russell gli ha perfino promesso di pubblicare le sue opere caso mai dovesse morire, ma lui è convinto che la loro formulazione non sia abbastanza precisa e non rispecchi con la necessaria chiarezza i suoi metodi di pensiero ecc., che ovviamente sono più preziosi dei risultati raggiunti. Non fa che dire di essere certo di morire entro quattro anni: oggi erano diventati addirittura due mesi”.[6] Forse questo irragionevole timore fu una delle cause che spinsero Wittgenstein a prendere la penna e a fissare i punti principali delle teorie elaborate fino a quel momento. Nacquero così le Note sulla logica, che rappresentano la prima testimonianza scritta del suo pensiero.

Di lì a poco Wittgenstein decise inaspettatamente di lasciare Cambridge e di trasferirsi in Norvegia per studiare in solitudine. Russell tentò di dissuaderlo, ma fu tutto inutile: “Gli dissi che sarebbe stato buio e mi rispose che detesta la luce del sole. Gli dissi che sarebbe stato completamente solo e mi rispose che si prostituiva l’intelletto parlando con la gente intelligente. Gli dissi che era pazzo e mi rispose ‘Dio mi protegga dalla saggezza’. (E speriamo proprio che Dio lo protegga)”.[7] Dal 1913 al 1914, salvo brevi interruzioni, Wittgenstein visse a Skjolden, sulla sponda di un fiordo, isolato dal resto del mondo. Il soggiorno norvegese rappresentò per lui un periodo di grande creatività. “All’epoca il mio cervello era infuocato!” dirà anni più tardi.[8] E scrivendo a Russell: “Mi sembra che stia crescendo dentro di me ogni specie di pianta logica, ma per il momento non sono ancora in grado di scriverne”.[9] 

Nell’aprile del 1914 Wittgenstein invitò a Skjolden George Edward Moore, al quale dettò i risultati delle proprie indagini. Nelle note trascritte da Moore, Wittgenstein delineava quella distinzione tra dire e mostrare che diventerà poi uno dei cardini della teoria esposta nel Tractatus. L’obiettivo fondamentale di Wittgenstein era la sostituzione della Teoria dei tipi di Russell con una nuova teoria dei simboli “la quale mostri che generi differenti di cose sono simbolizzati da generi differenti di simboli che non possono essere sostituiti l’uno con l’altro” (LR 244).

Al suo ritorno a Cambridge, Moore si informò se il manoscritto (intitolato provvisoriamente: Logica) potesse garantire a Wittgenstein il diploma di Bachelor of Arts al Trinity College. La risposta fu negativa: il regolamento del college disciplinava rigidamente la struttura cui doveva uniformarsi un elaborato e lo scritto di Wittgenstein non rientrava nei parametri richiesti. Wittgenstein andò su tutte le furie e se la prese col povero Moore: “Caro Moore, la sua lettera mi ha molto contrariato. Quando scrissi Logica non mi curai di consultare i Regolamenti, sicché ritengo che sarebbe più che onesto se mi si desse il mio diploma senza andare tanto a consultarli! (…) Se non son degno che si faccia un’eccezione per me riguardo ad alcuni stupidi dettagli, allora tanto vale mandarmi al diavolo senza tanti ambagi, e se io ne sono degno e lei non lo fa, allora, per Dio!, ci vada lei. L’intera faccenda è troppo idiota e troppo bestiale per continuare a scriverne”.[10]  

Questa vivace reazione dipese probabilmente dallo stato di esaurimento fisico e nervoso in cui venne a trovarsi Wittgenstein dopo lo sforzo produttivo dei mesi precedenti. Dominato da un’esigenza di chiarezza che si traduceva in un’esasperante ricerca della perfezione, Wittgenstein incontrava grandi difficoltà nel mettere in chiaro i propri pensieri ed era costantemente insoddisfatto dei risultati raggiunti. Nei suoi diari annoterà: “La mia difficoltà è solo una – enorme – difficoltà d’espressione” (Q 133). Il fatto che Wittgenstein abbia pubblicato così poco materiale durante la sua vita è da ascriversi proprio a questa ricerca quasi maniacale della forma espressiva perfetta.

Ma i problemi di Wittgenstein erano anche di natura morale e si collegavano a quell’esigenza di fare i conti con se stesso cui egli accenna in una lettera a Russell: “Come potrò mai essere un logico prima di essere un umano?”.[11] Fu probabilmente tale necessità interiore di mettersi alla prova per scoprire il proprio autentico io che spinse Wittgenstein, allo scoppio della Prima guerra mondiale, ad arruolarsi come volontario nell’esercito austro-ungarico. “Wittgenstein riteneva che l’esperienza di affrontare la morte lo avrebbe in qualche modo arricchito. Andò in guerra, si potrebbe dire, non per il proprio paese ma per se stesso”.[12]

La sua prima destinazione, nel settembre del 1914, fu il fronte orientale, su un battello che pattugliava il fiume Vistola. In questo periodo Wittgenstein lesse le Spiegazioni dei vangeli di Tolstoj e si accostò alla fede cristiana. I suoi compagni lo chiamavano ‘l’uomo coi vangeli’. Nonostante le difficoltà connesse al suo nuovo stato, Wittgenstein iniziò la stesura del Tractatus annotando le proprie osservazioni su una serie di taccuini che portava sempre con sé nello zaino militare. Nel dicembre del 1914 venne trasferito in un'officina di artiglieria, dove godette di una maggiore tranquillità per proseguire i suoi studi. Lesse i Saggi di R. W. Emerson, l’Anticristo di Nietzsche e I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Nell’ottobre del 1915 stese una prima redazione del  Tractatus, andata purtroppo perduta. Dal marzo del 1916 fu trasferito sulla linea del fuoco, sul fronte russo. Interrotti i contatti con Russell e l’ambiente di Cambridge, Wittgenstein attraversò un periodo molto difficile riuscendo tuttavia a portare avanti il proprio lavoro e distinguendosi anche nelle azioni di guerra per il suo coraggio (acquisito il grado di ufficiale di artiglieria, nel 1917 venne decorato con la medaglia d’argento al valore militare).

Nel marzo 1918, crollato il fronte russo e firmata la pace di Brest-Litovsk, Wittgenstein fu trasferito sul fronte italiano. Nell’agosto dello stesso anno terminò la stesura del suo libro e ne inviò una copia all’editore Jahoda, che però rifiutò di pubblicarlo; fu la prima di una lunga serie di risposte negative, ma Wittgenstein aveva in quel momento ben altro di cui preoccuparsi: in ottobre cadde infatti prigioniero dagli Italiani e fu trasferito in un campo di prigionia prima a Como e poi a Cassino (dove rimarrà dal gennaio all’agosto 1919). Riuscito a riprendere il contatto epistolare con Russell, gli comunicò di aver terminato la sua opera, per la quale aveva scelto il titolo di Logisch-Philosophische Abhandlung. Wittgenstein temeva che il libro fosse troppo innovativo per essere compreso, e le sue paure risultarono purtroppo fondate. Russell e Frege, cui era stata inviata una copia manoscritta dell’opera, manifestarono molte riserve sul contenuto del testo e riconobbero francamente di non aver compreso molto di esso. Ciò contribuì ad accentuare lo stato di sconforto in cui versava Wittgenstein per le difficoltà di pubblicazione dell’opera: nessuno degli editori contattati sembrava infatti disposto a rischiare su un’opera così singolare, e le lettere di rifiuto si susseguivano inesorabili. Ancora nel 1929, quando il Tractatus fu presentato come tesi di laurea al Trinity College di Cambridge, Wittgenstein era intimamente persuaso che quasi nessuno avesse compreso la lezione del suo libro: al termine dell’esame, alzatosi dalla sedia, egli andò a battere sulle spalle di Moore e Russell dicendo: “Non preoccupatevi troppo, tanto lo so bene che non lo capirete mai”.[13]     

Liberato dal campo di prigionia, Wittgenstein tornò a Vienna. Era uno degli uomini più ricchi di tutta l’Austria[14], ma il suo primo atto una volta rientrato in patria fu di rinunciare all’eredità paterna e di iscriversi ad un corso per diventare maestro elementare. La scelta di abbandonare gli studi filosofici era in fondo coerente con il giudizio negativo espresso sulla filosofia nel Tractatus e con la convinzione di aver detto nella sua opera tutto quanto fosse possibile esprimere sensatamente (nella sua Prefazione, Wittgenstein scrive: “La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono dunque dell’avviso d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi”). Depresso e in preda alla sindrome del reduce (continuerà per anni a indossare una logora divisa dell’esercito), Wittgenstein meditò a più riprese il suicidio (già tre dei suoi fratelli si erano tolti la vita). Era comunque convinto che il suicidio fosse un errore: “Sinché una persona vive non è del tutto perduta. E invece, ciò che spinge una persona al sucidio è proprio il timore di essere del tutto perduta”.[15]

Nonostante le difficoltà a trovare un editore per il Tractatus, Wittgenstein rifiutava l’idea di pubblicare il libro a proprie spese: “Il mio lavoro è di modestissima mole, circa sessanta pagine. Ma chi scrive sessanta paginette su questioni filosofiche? Gli unici sono quegli scribacchini disperati che non possiedono né lo spirito dei grandi né l’erudizione dei professori, e, tuttavia, desiderano ad ogni costo pubblicare qualcosa. Perciò tal genere di prodotti viene solitamente pubblicato a spese dell’autore. Ma io non posso mescolare tra questi scritti l’opera della mia vita: perché di questo appunto si tratta”.[16] 

Le speranze di pubblicazione si appuntarono ad un certo punto su Ludwig Von Ficker, editore della rivista letteraria Der Brenner: Wittgenstein scrisse una lettera di presentazione spiegando a Von Ficker il significato dell’opera: “Il mio lavoro si compone di due parti: ciò che ho scritto, più tutto ciò che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è importante. Grazie al mio libro, l’etico viene per così dire delimitato dall’interno; e sono convinto che, in senso stretto, l’etico sia da delimitarsi solo in questo modo. In breve, credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io, nel mio libro, l’ho definito semplicemente tacendone. Perciò, a meno che non mi sbagli del tutto, questo libro dirà molte cose che anche lei vuol dire, magari senza nemmeno accorgersi che vi vengono dette. Nel frattempo, vorrei raccomandarle la lettura della prefazione e delle conclusioni, perché esprimono le cose nella maniera più immediata”.[17] Von Ficker si riservò di decidere dopo aver consultato un professore di filosofia, ma Wittgenstein si mostrò tutt’altro che favorevole all’idea: se nemmeno Frege e Russell avevano compreso la lezione del Tractatus non v’era speranza che qualcun altro riuscisse nell’impresa. “Sottoporre un lavoro di filosofia a un professore di filosofia è come gettare perle ai porci. […] Del resto non ne capirà una parola”.[18] Anche questo tentativo si risolse così in un fallimento.

Le cose cambiarono dopo che Russell, con il quale Wittgenstein aveva discusso il libro parola per parola durante un incontro in Olanda, accettò di scrivere una introduzione al Tractatus. Il fatto che un autore affermato e conosciuto internazionalmente quale era Russell si facesse garante del valore dell’opera riuscì in effetti a convincere gli editori ad interessarsi al lavoro di Wittgenstein. Il Tractatus (ancora intitolato Logisch-Philosophische Abhandlung) venne così pubblicato nel 1921 su una rivista tedesca, Annalen der Naturphilosophie, diretta dal chimico Wilhelm Ostwald. L’edizione era zeppa di errori tipografici e a Wittgenstein non fu data nemmeno la possibilità di correggere le bozze. L’insoddisfazione di Wittgenstein crebbe ulteriormente per il fatto che l’introduzione scritta da Russell conteneva a suo avviso gravi fraintendimenti della dottrina esposta nell’opera. 

Finalmente nel 1922 fu pubblicata l’edizione inglese, nella traduzione di Frank Ramsey e Cecil K. Ogden. Il titolo Logisch-Philosophische Abhandlung fu cambiato in Tractatus logico-philosophicus su proposta di G. E. Moore, ispiratosi al famoso Tractatus theologico-politicus di Spinoza (Moore aveva colto alcune analogie tra le proposizioni finali del Tractatus e l'opera di Spinoza).  Wittgenstein aveva a quel punto già intrapreso la carriera di maestro elementare e continuò a mantenersi lontano dagli studi logici e filosofici fino alla fine degli anni Venti (abbandonato l’insegnamento, egli avrebbe lavorato come giardiniere in un convento e successivamente come architetto insieme all’amico Paul Engelmann). Wittgenstein ritornò a Cambridge solo nel 1929, scoprendo che il Tractatus logico-philosophicus lo aveva già da tempo consacrato come uno dei massimi pensatori della scena mondiale. 

 

 

LE PROPOSIZIONI PRINCIPALI DEL TRACTATUS

 

 

Il Tractatus logico-philosophicus si compone di sette proposizioni principali e dei corollari a queste proposizioni, ordinati secondo un sistema di numerazione decimale che serve a mettere in rilievo l’importanza di ogni singolo enunciato. Ad esempio, la proposizione 1 è più importante della 1.1 (il cui contenuto presuppone quanto viene affermato nella 1), la quale è a sua volta più importante della 1.11, etc.. In realtà Wittgenstein non rispetta sempre tale criterio e capita pertanto di trovare in posizione subordinata osservazioni degne di maggiore rilievo. Le sette proposizioni fondamentali costituiscono la struttura portante di tutta l’opera e la loro sequenza descrive sinteticamente l’impianto teorico del Tractatus:

 

  1. Il mondo è tutto ciò che accade.
  2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.
  3. L’immagine logica dei fatti è il pensiero.
  4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.
  5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.
  6. La forma generale della funzione di verità è: [ , , N( )  ].
  7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

 

 Il numero di enunciati subordinati a queste proposizioni di base è variabile: la numero 1 comprende  ad esempio soltanto sei corollari, mentre la 5 e la 6 ne contano diverse decine e la proposizione numero 7 viene presentata senza alcun commento. Il Tractatus è caratterizzato da un’architettura severa che richiede al lettore un impegno ed un’adesione costanti. “Con i miei numerosi segni d’interpunzione, ciò che in realtà vorrei è rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei essere letto lentamente. (Come leggo io stesso)” (PD 129). Wittgenstein presenta ogni pensiero nella forma di un’asserzione che non ammette repliche (Bertrand Russell paragonò le proposizioni del Tractatus agli ordini dello Zar) e non si cura molto di argomentare le proprie conclusioni. Chi sappia collegare le fredde e laconiche osservazioni di Wittgenstein nel disegno generale dell’opera, però, non potrà non apprezzare la bellezza essenziale e priva di fronzoli del Tractatus. La ricerca della chiarezza espressiva senza alcuna concessione al dettaglio ornamentale e alla decorazione (“ogni ornamento è un crimine”) accomunava Wittgenstein agli esponenti della nuova architettura viennese come Adolf Loos, sostenitore di una cifra stilistica rigorosa e lineare. Da questo punto di vista, il Tractatus può essere considerato come il risultato di un faticoso lavoro di distillazione del materiale preparatorio mirante a concentrare fino alla sua essenza più pura il nucleo delle tesi originarie. Preparando la stesura definitiva del libro per l’edizione inglese, Wittgenstein aveva scritto una serie di aggiunte che (a parte una) non furono poi inserite nella redazione finale. L’editore inglese chiese a Wittgenstein se fosse possibile inserire tali aggiunte per ampliare (e rendere più comprensibile) l’opera. Ricevette questa risposta:

 

“Le aggiunte sono esattamente ciò che non deve pubblicarsi. E a parte il fatto che non contengono alcuna delucidazione di sorta, sono ancor meno chiare delle restanti proposizioni. Per quanto poi riguarda la brevità del libro ne sono veramente costernato: ma cosa posso farci? Se lei mi spremesse come un limone non ne caverebbe nemmeno una goccia. Lasciarle stampare le aggiunte sarebbe una cosa irrimediabile. Sarebbe esattamente come se lei andasse da un falegname a ordinare un tavolo e quello glielo facesse troppo corto e allora volesse venderle i trucioli, la segatura e tutti gli altri scarti unitamente al tavolo per rimediare al fatto che è corto. (Piuttosto che pubblicare le aggiunte per ingrassare il libro, si lascino una dozzina di fogli bianchi a disposizione del lettore per riempirli di imprecazioni quando dopo aver comprato il libro non ci capisce nulla.)”.

 

Questo episodio e molti altri testimoniano il fatto che Wittgenstein considerava la forma del Tractatus, per quanto ardua per il lettore, impossibile da modificare senza stravolgere il messaggio stesso dell’opera. Forma e contenuto del Tractatus devono quindi considerarsi un’unità inscindibile: gli insegnamenti che Wittgenstein intendeva comunicare potevano essere veicolati soltanto nella forma espressiva scelta dall’autore.

Al di là dell’ordine di successione imposto ai singoli enunciati, nella trama del Tractatus si assiste al costante e regolare riemergere delle idee fondamentali e al loro inquadramento prospettico secondo una molteplicità di punti di vista differenti. La struttura dell’opera è stata in questo senso paragonata felicemente ad una composizione musicale “i cui leitmotiv ricompaiono di continuo in sottili modulazioni”.[19] Il lettore si trova così ripetutamente posto di fronte alle ‘verità’ essenziali del messaggio rendendosi conto che ogni sentiero del percorso suggerito da Wittgenstein, per quanto in apparenza tortuoso e divergente dalla strada principale, lo riconduce infine sempre ad uno stesso scenario di fondo (in questo senso ogni enunciato, anche quelli che a prima vista appaiono di secondaria importanza, è comunque funzionale allo sviluppo di una delle molteplici linee argomentative di cui si compone l’opera: “Delle frasi che scrivo solo una ogni tanto fa un passo avanti; le altre sono come lo scatto delle forbici del barbiere, che deve continuare a muoverle per dare un taglio al momento giusto”, PD 126).

L’idea di un itinerario filosofico che conduca il lettore a ‘vedere’ la verità del messaggio, un percorso insomma che si limiti a ‘mostrare’ e a dischiudere l’orizzonte del visibile, era del resto profondamente coerente con l’idea che Wittgenstein aveva maturato a proposito del sapere filosofico: “Wittgenstein pensava (ed è un’idea a cui sarebbe rimasto sempre fedele) che essendo la filosofia “puramente descrittiva” essa non contenga deduzioni. [...] Conformemente a questa convinzione, il Tractatus non è organizzato (almeno in superficie) come una successione di argomentazioni, ma come una sequenza di osservazioni. L’ordine delle osservazioni, e il loro ruolo gerarchico, indicato (almeno in teoria) dal numero scritto a sinistra di ciascuna osservazione, dovrebbe guidare il lettore non lungo un percorso argomentativo, ma piuttosto a “vedere” come stanno le cose; così come si potrebbe pensare di guidare qualcuno a osservare un paesaggio attirando la sua attenzione prima sui tratti più salienti, poi sui dettagli (prima su una catena di montagne, poi su ciascuna montagna, poi sui villaggi ai piedi di ciascuna montagna, e così via)”. [20]

Il Tractatus logico-philosophicus, come Wittgenstein afferma nella sua Prefazione, non è dunque un ‘manuale’: il suo scopo non è fornire una serie di contenuti dottrinali precostituiti, bensì (socraticamente) porre il lettore nel giusto angolo prospettico per cogliere da sé la verità. La metafora più efficace per descrivere il Tractatus logico-philosophicus è allora quella della scala, cui Wittgenstein accenna nella proposizione 6.54 del testo. I singoli enunciati del Tractatus sono i come i gradini di una scala che il lettore sale fino a raggiungere un punto di vista che gli consente di vedere quanto prima si celava al suo sguardo. Arrivati al vertice della struttura (cioè una volta giunti alla proposizione finale dell’opera e assimilata la lezione del libro), ognuno di noi  “vede rettamente il mondo” (6.54) ed è in grado di agire in esso senza più il rischio di cadere negli equivoci e negli errori tramandati dalla tradizione filosofica. Questo modo di considerare il testo ci suggerisce anche quale valore debba essere attribuito al Tractatus una volta che esso abbia svolto la sua funzione. Nel momento stesso in cui abbiamo raggiunto il livello prospettico adeguato, ci dice Wittgenstein, la scala che ci ha reso possibile l’ascesa non serve più a nulla e bisogna perciò disfarsene senza rimpianti. Perché il Tractatus logico-philosophicus è servito a mostrarci e indicarci la strada da percorrere ed esaurisce il suo compito una volta che noi, i lettori, ci siamo incamminati nella direzione giusta. Continuare a fissare i nostri sguardi sul libro equivarrebbe ripetere l’errore di quello sciocco cui veniva indicata la luna e che invece di guardare in direzione del cielo concentrava la sua attenzione sul dito teso del suo interlocutore. 

 

 



[1] In: Monk 45.

[2] In: Monk 46.

[3] In: Kenny 14.

[4] In: Monk 50.

[5] In: Monk 49.                                                                                 

[6] Pinsent 107.

[7] In: Monk 98.

[8] In: Monk 101.

[9] Ibidem.

[10] In: Monk 108-109. 

[11] In: Monk 103.

[12] Monk 118.

[13] Monk 269. 

[14] Il padre di Ludwig, Karl, era “l’eguale di un Krupp in Germania o un Carnegie negli Stati Uniti” (Jaccard 13).

[15] In: Monk 190.

[16] In: Monk 182.

[17] In: Monk 182-183.

[18] In: Monk 183. 

[19] Black 12. Wittgenstein era dotato di grande sensibilità per la musica. Nella casa dei Wittgenstein a Vienna erano spesso ospitati compositori di fama come Mendelssohn e Brahms. “C’è persino una somiglianza di famiglia tra le strutture logiche, i motivi e le intenzioni del Tractatus e quelli della teoria musicale di Schönberg: perché anche Schönberg è guidato dalla convinzione che il “linguaggio” attraverso cui egli si esprime, la musica, deve essere innalzato ad un grado di necessità logica tale che eliminerebbe tutti gli incidenti soggettivi” (E. Heller in: Bouveresse 21).

[20] Marconi 1997, 18 n. 9.

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