martedì 19 marzo 2024   ::  
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 di Umberto Galimberti

 

  

IL CRISTIANESIMO E IL DESIDERIO INFINITO

Come ci ricorda Nietzsche, la tragedia non è un genere letterario, ma la condizione della vita in genere. dove la felicità non è separabile dalla crudeltà. Per questo la fine della tragedia, non segna per Nietzsche,  l'esaurirsi di una forma artistica ma, drammaticamente, l'interruzione brusca  della visione greca della vita, perché con la morte e la resurrezione di Cristo, avvenuta quando a Roma regnava Tiberio , una vita eterna si annunciò al di là  della vita terrena e la teologia della salvezza dissolse la visione tragica dell'esistenza. La contrapposizione fu netta e consapevole, se è vero che Pan, il dio della tragedia dalle zampe pelose e dal piede caprino (traghikós), divenne nell'iconografia cristiana, l'immagine del diavolo. Nietzsche riferisce questa drammatica fine della visione tragica dell'esistenza a opera del cristianesimo e la descrive con queste parole:

"la tragedia greca perì in modo diverso da tutti gli antichi generi d'arte affini, morì suicida in seguito ad un'insolubile conflitto, dunque tragicamente, mentre tutti quegli altri scomparvero a tarda età con la morte  più  bella e tranquilla (....) Con la morte della tragedia greca si produsse un enorme vuoto, ovunque profondamente sentito. Come una volta ai tempi di Tiberio i naviganti greci, udirono in vicinanza di un isola solitaria, lo sconvolgente grido "il grande Pan è morto" la tragedia è morta! Anche la poesia è perduta con essa!"(tratto dal testo di Niezsche: La nascita della tragedia dallo spirito della musica  - in Opere Aelphi)

La tradizione giudaica-cristiana ha sciolto il nesso tra felicità e crudeltà che la natura, nella sua innocenza, vincola, attribuendo la felicità alla vita in quanto creazione di Dio e la crudeltà all'uomo che, con la colpa, ha infranto la bellezza della creazione. In questo modo, la tradizione giudaico-cristiana a differenza della cultura greca, non ha voluto guardare in faccia il dolore nella sua ineludibile realtà e, con questa rimozione, si è congedata dalla tragedia, incanalando la sofferenza sui sentieri della speranza che conducono a scenari di salvezza.

Così facendo la tradizione giudaico-cristiana ha perso la giusta misura che consentiva al Greco di vivere la felicità dell'esistenza pur nella crudeltà della legge di natura e ha educato l'uomo al desiderio infinito.

Non più la "fedeltà alla terra"come vuole l'espressione di Nietzsche ma "nuovi cieli e nuova terra" com'è nelle parole di Isaia (16,17-22). Interpretato nella prospettiva della vita futura il dolore non ha più nulla di tragico ma, viene iscritto nello scenario della speranza che, proietta il desiderio al di là della misura terrena. Questa proiezione qualifica la terra come "valle di lacrime" ma in compenso, rende il dolore sopportabile. Nell'attesa della liberazione dal dolore, il desiderio oltrepassa i confini della terra e la caducità del tempo, per ancorarsi all'eternità promessa.

Alla moderazione greca che si accontenta di ciò che ha, subentra con il cristianesimo, quel desiderio infinito che vuole ciò che non possiede, ma spera di ottenere dall'amore di Dio, che non ha creato una natura "innocente e crudele"    ma come dice la Genesi "buona" e, se pur attraversata dal dolore causato dalla colpa, riscattabile proprio attraverso l'accettazione incondizionata dal dolore. Di qui l'amore per la sofferenza che non si deve solo sopportare, com'era nella mentalità greca, ma in quanto pegno di salvezza, addirittura abbracciare. In questo modo, come ci ricorda Nietzsche, il desiderio di salvezza iscrive il dolore nell'erotica:

"la dottrina della redenzione conosce la beatitudine ( il piacere) soltanto nel non opporre più resistenza, non più a nessuno, né alla disgrazia né al male - l'amore è come unica, come ultima possibilità di vita (...) la dottrina della redenzione io la definisco un sublime sviluppo ulteriore dell'edonismo su base assolutamente morbosa" ( Nietzsche tratto dal libro: L'anticristo, la maledizione del cristianesimo - Opere Adelphi).

Non più il "sublime et abstine" dello stoicismo greco, su cui si fondava un'etica della forza e della moderazione che tutelava la dignità dell'individuo, rendendolo capace di regge il dolore con quello stile che doveva condurlo ad una bella morte, ma l'amore per il dolore, letto come uno strumento con cui Dio mette alla prova la fedeltà dell'uomo e come garanzia per la felicità futura.

Il greco regge il dolore perché è proprio della sua etica sapersi governare nella sofferenza. Il cristiano ama il dolore perché legge nel dolore la condizione di salvezza.  Oltrepassando la misura terrena della felicità eterna promessa, il cristiano non contrasta il dolore sulla terra ma, lo accetta e lo ama.

Il desiderio illimitato di felicità lo conduce  all'accettazione incondizionata del dolore. Nasce così quella "beatificazione" della sofferenza che ha nel "discorso della montagna" di Gesù la sua enunciazione e l'invito alla sua pratica, perché ad accettare il cristiano c'è un mondo senza lacrime, senza dolore, senza morte, che per la mentalità greca era semplicemente inimmaginabile.

Il desiderio infinito che non accetta la morte attende la resurrezione dei morti, la vita senza termine, la visione di Dio, in una parola la vita eterna che più non conosce né il dolore, né il limite. Qui il gioco non è più nelle mani dell'uomo che contrasta come può il dolore sulla terra, ma in quelle dell'onnipotenza divina che lo elide. La storia, non è più dell'uomo, ma di Dio che non interviene in questo mondo per migliorarlo, ma per produrre uno stacco, una rottura definitiva, in vista di un altro mondo che più non conosce né il dolore, né la morte e a cui si rivolge il desiderio umano nel suo spasmodico tendere. Ma chi è Dio? a porsi questa domanda  è Agostino che, nell'inquietudine del suo cuore ( inquietum est cor nostrum) chiede:

che cosa sei tu per me?

che cosa sono io per te?

Dillo a quest'anima; io sono la tua salvezza.  

(tratto da Agostino di Tagaste da Confessiones  - libro 1,5-5 Confessioni dalla traduzione della Fondazione Lorenzo Valla)

Dio è dunque per il cristiano il bisogno incontenibile di salvezza che orienta il desiderio  e la pratica della vita. Perciò conclude Agostino "io correrò dietro alla tua voce e ti troverò" (curram post vocem hanc et apprehendam). Ciò a cui l'uomo non può pervenire con le sue forze, lo ottiene da Dio.

Ma qui non si fraintenda. Il bisogno di aiuto è un bisogno naturale. Ma un conto è invocare gli dei nelle angustie della vita, un altro è ipotizzare uno stato in cui non vi sarà più bisogno d'aiuto perchè Dio avrà espunto definitivamente il male e la morte. Questa è la differenza tra i Greci e i Cristiani. Una differenza che investe la portata del desiderio e il limite iscritto nella "giusta misura" . Per questo la poesia di Pindaro dice:

Anima non t'affannare

per una vita imperitura, tocca il fondo

d'ogni via del possibile.

(tratto dal libro di Pindaro - Pitica - III vv.85-87)

 

Mentre la fede di Isaia annuncia:

Ecco io creo

cieli nuovi e nuova terra

non si ricorderà più il passato,

non verrà più in mente,

perché si vivrà e si gioirà per sempre

per le cose che io creerò

(da Isaia 16, 17-22)

Se il greco come ci ricorda Pindaro, invoca gli dei per essere liberato dal male presente, il cristiano si rivolge a Dio per ottenere la liberazione non solo dai mali presenti, ma, come recita il "Padre nostro" dal male in genere in visto di quella salvezza vera, incondizionata, definitiva che è la vita eterna, dove il dolore sparirà per sempre.

Questo desiderio infinito, che è la vera anima del cristianesimo, porta alla svalutazione del mondo, che diventa irrilevante nei suoi accadimenti, buoni o cattivi che siano, perchè la salvezza è nella fine del mondo. Per questo Agostino può dire: "Chi ama il mondo non conosce Dio" (amare mundum non est conoscere Deum) (Tratto da Agostino di Tagaste in Epistolam Ihoannis ad Parthos (415) in commento alla prima lettera di Giovanni  in amore assoluto e Terza navigazione - edizioni Rusconi Milano pag. 148-152).

Attendendo la fine del mondo, e con la fine del mondo la ressurrezione dei morti, il cristianesimo non si separa solo dalla sua matrice ebraica ma sancisce in modo definitivo la sua abissale distanza dalla mentalità greca, se è vero che all'annuncio della resurrezione dei morti di Paolo all'Areopago, gli ateniesi reagiscono sorridendo:

"Dio ha fissato un giorno in cui, a rigor di giustizia, giudicherà il mondo per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone sicura prova a tutti col resuscitarlo dai morti. Quando intesero parlare di resurrezione dei morti, alcuni ci risero altri dissero " a proposito di questo, ti ascolteremo un'altra volta." (tratto da Atti degli Apostoli 17- 31,32).

 

Umberto Galimberti

ulteriori approfondimenti:

La casa di Psiche - dalla psicoanalisi alla pratica filosofica /la giusta misura - pag. 385 - Feltrinelli editore.

 

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