
Karl Löwith:
la questione antropologica
sulla natura umana (KIERKEGAARD - NIETZSCHE)
AUTORE - MANUEL ROSSINI 21.01.2011
Premessa due scritti gemelli del 1933:
Kierkegaard und Nietzsche oder philosophische und theologische Überwindung des Nihilismus e Kierkegaard und Nietzsche
1: Sono due saggi che si concentrano sul problema del nichilismo e sul tentativo di superare questa impasse tramite una antropologia filosofica “sperimentale”. I due scritti muovono dagli stessi presupposti e mirano anche allo stesso obiettivo: mostrare quanto l’analisi dei due padri fondatori dell’antropologia filosofica si sia spinta a fondo nel problema dell’uomo in quanto tale, riconoscendo, inoltre, che la difficoltà dell’antropologia risiede nel carattere nichilistico del loro tempo e nel conseguente venir meno dell’orizzonte cristiano. a tale diagnosi, tuttavia, si affianca una critica: sia Kierkegaard che Nietzsche non sono riusciti a venire a capo né del nichilismo, né del problema dell’uomo in quanto tale. Una vera indagine filosofica dell’uomo, infatti, deve necessariamente ri-partire dai risultati teorici di questi due pionieri dello spirito: «la preparazione di questa domanda fondamentale di una “antropologia filosofica” in se stessa comprensiva, al di là di Kierkegaard e di Nietzsche è, tuttavia, attualmente abbozzata proprio tramite questi due pensatori; poiché nessuno come loro nel XIX secolo è penetrato così in fondo nella scoperta dell’uomo»
2. la vera strada dell’antropologia filosofica della modernità riparte, quindi, da e con Nietzsche e Kierkegaard. La riflessione di Kierkegaard, infatti, non conosce una declinazione naturale e biologica dell’uomo. in questi lavori Löwith si concentra sull’innovazione teorica di Kierkegaard e Nietzsche: la fondazione e introduzione dei due concetti fondamentali che caratterizzeranno gran parte della filosofia del XX secolo. Leben e Existenz (essere e tempo) sono, infatti, degli assunti filosofici plasmati dalle analisi di Kierkegaard e Nietzsche determinanti la Grundfrage della filosofia contemporanea: «Che cos’è l’uomo?» e, soprattutto, «che cosa ne è di lui?». Questo ordine di cose portano i due filosofi a confrontarsi, anzi, ad incontrarsi, nel problema del nichilismo come in un “punto di intersezione”
3, da dove poi si decideranno e divideranno per il loro superamento. i due concetti non vengono approfonditi solo nel loro lato positivo, ma anche in quello negativo, oscuro e pulsionale, quel lato dell’irrazionale che ricopre gran parte della nostra esistenza e che la determina e caratterizza ben più di quello che si pensi comunemente.
4 Solo con questa attenzione per ciò che è nascosto, oscuro, sempre al limite tra il baratro dell’irrazionalità e le cime della razionalità, capiamo l’importanza teoretica del fenomeno del nichilismo, “centro originario e motore” dell’esperimento filosofico di Kierkegaard e di Nietzsche
5 Entrambe le loro prospettive antropologiche aprono la strada ad un’analisi che va oltre la semplice descrizione fenomenologica, sociale e culturale del fenomeno “uomo” per immergersi, invece, nella profondità del suo intimo: da qui la definizione löwithiana dei loro approcci come psicologie sperimentali. se la diagnosi di quest’epoca di dissoluzione, che richiede non solo una decisione – chiosava Marx – ma anche un farsi carico delle sorti dell’uomo e della questione della sua essenza,
è qualcosa che accomuna tanto Kierkegaard quanto Nietzsche e che impone una definizione dell’uomo in quanto tale, la loro via per il superamento del nichilismo che potrebbe condurre alla risposta a questo interrogativo è, secondo Löwith, differente ma parimenti fallimentare: il salto nella fede di Kierkegaard in un cristianesimo originario.
K. Jaspers è dello stesso parere quando afferma: «È sempre più evidente che ci troviamo davanti al nulla. Kierkegaard e Nietzsche sono dunque i pensatori più significativi », (in K. Jaspers, Die geistige Situation der Zeit, Berlin, de gruyter, 1931, p. 16 - trad. it. La situazione spirituale del tempo, Roma, Jouvence, 1982, p. 42).
L. Strauss, in una lettera a Löwith del 30 dicembre 1932 (in KSL, p. 613), scrive di essere ancora impressionato dalla “radicalità” con cui Löwith pone la questione antropologica fondamentale, «la domanda circa la natura dell’uomo e l’umano in generale».
Curante di tutta la tradizione e cultura occidentale fino a noi trasmessa e l’ambigua dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche – un surrogato moderno di paganesimo e cristianesimo – sono delle esagerazioni e degli estremismi teorici, delle forme di fede arbitrarie che non rappresentano né un tentativo di fuoriuscita dal nichilismo né una definizione idonea dell’uomo. il Singolo (der Einzige) e l’Oltre-uomo (der Übermensch) non potranno essere il parametro di comprensione e di indagine antropologica della modernità. «Io [Löwith] non salto né alla “fede” paradossale di Kierkegaard, né alla non meno assurda dottrina dell’eterno ritorno di Nietzsche ma […] al buon modo tardo-antico (stoico-epicureo-scettico-cinico), ad una saggezza di vita realmente praticabile – alle “cose prossime” e non alle più remote»
6. L’“integrità” dell’uomo è un indice che si configura diversamente nei due “psicologi sperimentali”: in Kierkegaard l’uomo riacquista se stesso solo davanti all’onnipotenza del vecchio Dio biblico che incute “timore e tremore”, in una ri-comprensione e ri-appropriazione dell’esperienza del cristianesimo originario che ha luogo mediante una decisione. L’ambiguità dell’originarietà dell’uomo si scinde, in Nietzsche, in una tensione tra l’uomo nella sua fisicità e nella sua incondizionatezza naturale e assiologia – perduta causa la storia e l’azione del cristianesimo – e nell’anelito al superamento stesso dell’uomo nell’Übermensch, una nuova condizione ontologica (e assiologica) che dovrebbe tendere alla rimozione di questa Urschrift dell’umanità. (6 lettera di Löwith a Strauss del 15 aprile 1935, in KSL, p. 646 (trad. it. p. 8). rossini.indd 83 16-02-2009 12:32:59 84)
Le obiezioni di Löwith agli esperimenti di Kierkegaard e Nietzsche possono essere raggruppate intorno a due ordini di problemi. In primo luogo, queste concezioni antropologiche si basano su di un presupposto storico relativo all’epoca, quindi, inadatto per una comprensione ontologica dell’uomo che intende definirlo e comprenderlo per come è in sé, oltre il tempo e la storia (o almeno per comprendere l’uomo nella sua essenza prima di tutta una tradizione storica, culturale e spirituale
che ne invalida necessariamente una definizione eterna: è questo il vero significato della Urschrift). Kierkegaard, infatti, muoveva dalla convinzione che l’età in cui si trovava gettato fosse un’epoca di
dissoluzione (Auflösung) e da questo presupposto avanzava l’assurda pretesa di restaurare il cristianesimo originario e autentico come se una riproposizione decontestualizzata e arbitraria potesse essere accettata dall’uomo moderno che non crede più.
Nietzsche si addentrò negli oceani inesplorati dello spirito, convinto che tutte le possibilità del cristianesimo fossero oramai esaurite. la sua paradossale dottrina dell’eterno ritorno doveva fungere da strumento a-temporale per il raggiungimento di una originaria comprensione dell’essere e dell’ente, conducendolo, tuttavia, alla follia e alla confusione – assurda e sensata allo stesso tempo – tra Dioniso e il Crocefisso. In secondo luogo, il fallimento vero e proprio dell’esperimento filosofico di Kierkegaard e Nietzsche, secondo Löwith, va ricondotto ad un errore di tipo strutturale e antropologico.
La definizione dell’uomo che hanno proposto è essenzialmente riduttiva e non descrive la complessità e l’ambiguità che caratterizza l’uomo, poiché: così poco come l’uomo solo per natura “vive”, allo stesso modo così poco esso vive tramite il solo “esistere” […]. La domanda dovrebbe piuttosto essere ricondotta nuovamente indietro al suo proprio punto di partenza, cioè all’uomo come tale, che può esistere come può vivere,poiché sia l’esistenza che la vita sono caratteristiche dell’uomo. Ma cosa significa esistere come “uomo”, se questo essere umano né si risolve nell’essere una “esistenza” né nell’essere “vita”? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe per prima cosa sapere cosa soprattutto e specificatamente l’umano è, così da avere con ciò un modello per il significato umano della possibilità dell’esistenzialità e della vitalità. Cioè: si dovrebbe sapere cosa rende l’uomo uomo, cosa comunemente stabilisce la sua umanità.
7. La questione della definizione dell’uomo in quanto tale è problematica
8 Nel carteggio con Strauss, dove Löwith sembra propendere, paradossalmente, per una definizione di tipo “storicistico” che intende l’umanità dell’uomo come la naturalità da lui raggiunta in quel determinato momento storico, non si propone mai una definizione univoca e chiara dell’uomo in quanto tale e della sua umanità (in questa forma almeno per tutti gli anni trenta). Nel 1935, nell’importante saggio su Scheler, Löwith riconosce la profondità di un’affermazione del filosofo nel momento in cui egli comprende che la nostra epoca è la prima in cui l’uomo, divenuto completamente problematico, non sa più cosa egli sia pur essendo cosciente di questo suo stato d’impasse.
9. Ci troviamo di fronte ad uno stato di ignoranza antropologica “socratica”: questa agita l’intera riflessione di Löwith dell’epoca quanto la filosofia in generale. Benché Löwith, in questa fase di pensiero, non risponda all’enigma, ne riconosce però la causa nella perdita del fondamento cristiano che caratterizzava l’uomo e il concetto di umanità: «se il concetto dell’uomo e dell’umanità stava in una originaria connessione con il cristianesimo, la semplice umanità diventerà necessariamente problematica, non appena sia privata del contenuto cristiano».
10. Ancora più significativo il passo seguente, dove umanità e cristianesimo dimostrano la loro sostanziale e fondamentale coappartenenza: «l’affermazione che “noi tutti” siamo uomini è determinata […] dall’umanità prodotta dal cristianesimo, in unione con lo stoicismo […] soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità»
11. È Strauss che ci propone, in una missiva del 30 dicembre 1932 all’amico, una chiave per dischiudere la complessa posizione di Löwith circa il problema della “naturalità” dell’uomo. Il filosofo, dall’esilio parigino, comprende che il problema cruciale di Löwith è quello della incondizionatezza (Unbefangenheit): la conoscenza dell’uomo e del suo ideale senza presupposti storici e culturali, nella sua originarietà. la tensione verso questa incondizionatezza, secondo Strauss, dimostra per Löwith che l’uomo moderno non è incondizionato e che, di conseguenza, anche il suo interrogare non sarà del tutto incondizionato. Ciò che condiziona la contemporaneità e la nostra situazione d’impasse teorica è, tanto per Strauss quanto per Löwith, la cristianità e la polemica verso di essa.
12. Strauss, tuttavia, vede nel ritorno critico – non polemico – all’ideale intuitivo della natura degli antichi greci la via d’uscita da questo stato non ancora del tutto liberato dalla comprensione cristiana, nonché un superamento dell’impostazione “storicistica” e “anti-umanista” di Löwith, che non sembra ritenere concepibile un simile “ritorno” svincolandosi dalla comprensione storica. (Cfr. la lettera di Strauss a Löwith del 30 dicembre 1932 in KSL, pp. 613-614.
rossini.indd 85 16-02-2009 12:32:59 86). Löwith sarebbe spinto dall’ideale di giungere all’“essere” che non sia tale in virtù di una “interpretazione” (Auslegung). Alla fine degli anni sessanta Löwith ricorderà di nuovo questa dissoluzione spirituale dell’Europa, dovuta alla perdita dell’orizzonte di senso cristiano: «Ciò che oggi si definisce Europa è religiosamente vuoto, impoverito spiritualmente e politicamente così impotente quanto non autonomo »: (Atomenergie und menschliche Verantwortung, in «neue rundschau», XcV, 1-2, 1984, pp. 54-59, qui p. 56. 11 Ivi, p. 409) .
Ci sono altri passi dove Löwith evidenzia il rapporto di “figliolanza” tra cristianesimo e umanità; in riferimento a Nietzsche: «L’intima connessione tra cristianesimo e umanità si esprime in Nietzsche nel fatto che il superuomo compare quando Dio è morto».
Secondo Strauss, tuttavia, Löwith cadrebbe in contraddizione, poiché ammettendo che la natura umana e l’uomo di volta in volta vengono interpretati sempre diversamente e legittimamente nel corso storico, ammette di conseguenza la necessità di una “interpretazione”, che farebbe cadere la possibilità di un punto prospettico incondizionato. il ritorno all’intuizione greca sembra a Strauss l’unica opzione possibile: «È forse un caso che ogni umanismo si sia compreso come ritorno ai Greci? E perché Lei crede di potersi sottrarre a questa necessità?»
13. La risposta di Löwith dell’8 gennaio ci chiarisce la sua posizione, in modo sorprendentemente originale: il superamento del relativismo storico imputatogli da Strauss è possibile solamente partendo dalla nostra situazione contemporanea necessariamente “polemica”. riferirsi all’incondizionatezza dei Greci è, in realtà, un ancorarsi storicamente ben più deciso e radicale della posizione “storicista” di Löwith, «poiché io [Löwith] ritengo che noi possiamo tornare ad essere incondizionati proprio a causa (auf Grund) dello storicismo e tornare ad essere molto naturali a causa del nostro esserci tecnicizzato».
14. La prospettiva di una definizione antropologica “integra” sembra quindi spostarsi in avanti e non rifarsi ad un modello di originalità oramai perduto come la intende Strauss, tanto meno assoluto, poiché sostituisce il cristianesimo assoluto con una antichità assoluta
15 Il mio [di löwith] dunque non è un utopico ritorno a: la natura dell’uomo, ma il tentativo di sviluppare possibilità “autentiche” a partire da ciò che per noi è divenuto, di fatto, universalmente umano – come per esempio il denaro e il lavoro! – e che noi consideriamo “naturale” […].
Lei [riferito a strauss] domanda: che cos’è l’uomo e che cosa ne è divenuto –
“noi ora siamo così” e mi domando «che cosa può ancora scaturire dall’uomo» […]! Io inizio sempre dalla contemporaneità, avendo come scopo il futuro prossimo.
16 I Löwith, quindi, non si tratta di restaurare utopicamente uno status originario e perduto dell’umanità: l’originarietà dell’uomo che può condurci ad una sua determinazione si trova davanti a noi e coincide con l’idea nietzscheana di una esistenza pura che non distingue tra senso e non senso. l’originarietà dell’uomo, situata nel futuro, è possibile esclusivamente grazie alla mutevolezza della natura umana.
17 Proprio un determinato tipo umano odierno, il quale è molto “moderno”, è anche molto “naturale”, come per noi lo è diventata, per esempio, la luce elettrica. Ma anche le lampade a olio dei greci erano un’illuminazione molto artificiale, tecnica e naturale ad un tempo. Poiché l’olio in quanto tale è altrettanto naturale quanto l’energia elettrica. È in questi termini, così innaturali, che io penso la natura dell’uomo […]! lei [riferito a Strauss] sembra urtato dalla “mutevolezza” [Wandelbarkeit] della natura umana, mentre io ritengo che questa mutevolezza sia l’unica speranza e l’unico futuro.
18 È opportuno dare una definizione terminologica e concettuale precisa in modo da comprendere la posizione di Löwith di questi anni e di mettere in luce le differenze, già da adesso, con la sua tarda antropologia filosofica. Löwith intende la naturalità dell’uomo come un qualcosa di mediato storicamente: oggi ci troviamo in una precisa modalità dell’essere (ontica, si potrebbe dire) e siamo esseri “naturali” non meno che in passato. In questa fase di pensiero di Löwith il concetto di “naturalità” non ha ancora del tutto le sfumature biologiche che verranno alla luce solo negli anni cinquanta, ma è sinonimo, in senso lato, di “essenza” e il particolare “storicismo” löwithiano costituisce in sé la possibilità dello sviluppo dell’uomo e della sua essenza. La situazione storica odierna richiede una rielaborazione nel futuro: il passato viene storicizzato e riproposto in una chiave ermeneutica antropologica per l’umanità del domani – l’antropologia, quindi, è “storicistica” e “relativistica”, nella misura in cui l’“eternità” delle sue interpretazioni hanno fondamento sulla stessa immagine multiforme e polivalente dell’uomo che, solo partendo dall’“oggi”, si muove in direzione del “domani”. la chiave del superamento dell’impasse antropologica si situa per Löwith, quindi, nella contemporaneità e non in una ricerca di un ideale “mitico” o del passato. l’Urschrift è davanti a noi, nel movimento che ci conduce in avanti allontanandoci dall’oggi. la “mutevolezza” della natura umana è, di conseguenza, sinonimo della capacità dell’uomo di adattarsi storicamente alla situazione di fatto, di guardare sempre avanti in direzione del proprio orizzonte dell’originarietà. Ciò che determina l’uomo non è, infatti, una staticità ontologica, né l’uomo potrebbe dirsi, di conseguenza, “antico” o “moderno”, “naturale” o “innaturale”, poiché di volta in volta si adatta a quelle strutture concettuali del presente che pre-formano e determinano la sua interpretazione (Auslegung) di sé rispetto alla sua epoca. «“Comunemente” umano, tuttavia, può essere ciò che è generalmente umano, così come “naturale” può essere ciò che appartiene alla natura generale in quanto essenza dell’uomo. Entrambi i modi sono, in generale, storici. anche la naturalezza dell’uomo ha, in quanto umana, la sua storicità. Ciò che era “naturale” per i Greci o per Rousseau non lo è più senz’altro per noi. Ciò che è naturale per l’uomo può solo provenire e divenire comprensibile da cosa è l’uomo comunemente».
19. Questo degli anni trenta sembra essere uno “storicismo produttivo”, che struttura l’interpretazione antropologica intorno alle nuove costellazioni concettuali e agli eventi determinanti ogni epoca storica. si comprende, allora, perché Löwith sostiene che l’uomo, nella sua estrema innaturalità,è comunque naturale quanto l’uomo della grecità. Potremmo definire questa posizione di Löwith anche come un nichilismo critico, “attivo” – non in senso nietzscheano –, una comprensione dell’essere e dell’ente che, non riconoscendo la “permanenza”, accetta la molteplicità storica dell’interpretazione.
20. Tale “produttività” dello storicismo e del nichilismo – di liberare di volta in volta l’orizzonte esplicativo dell’essere e dell’ente – è enunciata da Löwith in un passo della lettera a Strauss del gennaio 1933: «neanche i greci scoprirono una volta per tutte l’uomo “in quanto uomo” […] smisero soltanto di credere a quello che credevano gli egizi, e cioè che gli uomini si trasformassero in animali, ma continuarono pur sempre a credere nell’olimpo. poi si è creduto in Cristo e infine nella morale e nella ragione – e ora non si crede più in “nulla”, sicché la via che conduce ad un uomo naturale e semplice si è liberata».
21. Una eventuale ricaduta di queste posizioni nel “relativismo” è evitata da una assolutezza storica”, sia esso quello del cristianesimo che quello dell’antichità, due comprensioni della realtà oramai, dopo Nietzsche.
22. Rtornando ai due saggi del 1993, lo sfondo di riferimento delle due lettere tra Strauss e Löwith commentate, intendiamo ribadire la loro fondamentale importanza: rappresentano una chiave di comprensione del pensiero di Löwith e una sorta di anello di congiunzione con la tarda produzione degli anni cinquanta che, con tratti sempre più accentuati, avrà una direzione cosmologica e organica che implicherà anche la determinazione antropologica. i saggi del 1933, inoltre, operano un primo mutamento prospettico rispetto allo scritto di libera docenza che adottava un metro antropocentrico (mutuato da un interesse di filosofia e antropologia “sociale”) concentrando l’osservazione non sull’uomo in quanto tale ma sulla sua relazionalità verso l’altro.
23. Kierkegaard e Nietzsche, impiantando le basi della ricerca filosofico-antropologica attuale, hanno veramente inteso il problema del nichilismo prima di chiunque altro.
24, Superando, per esempio, la lettura della modernità di Marx, che non ha compreso il lato spirituale e filosofico dell’indagine del nichilismo, poiché interpretazione oscurata dal filtro esclusivo dell’economia politica e della lotta di classe. il nichilismo, infatti, è un momento costitutivo e fondamentale della modernità e della nostra coscienza occidentale, un sintomo il quale, sia in Kierkegaard che in Nietzsche, si mostra come fenomeno ambiguo e dalla duplice valenza: è un sintomo di decadenza, fiacchezza dello spirito e di crisi assiologia.
23 Questo motivo della “relazionalità” (così come quello del “biologismo”), pur non avendo molto spazio nei due saggi su Kierkegaard e Nietzsche e essendo implicito nella discussione avviata con Strauss, ritornerà nei tardi saggi di antropologia filosofica, per esempio nel lavoro postumo uscito nel 1975, Zur Frage.
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24 Alcuni aspetti delle letture congiunte di Kierkegaard, Nietzsche e Marx, sono stati criticati da Caracciolo, che dubita di questi schemi interpretativi di Löwith. Caracciolo, ,
Con le letture di Franceschelli, Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla, roma, Donzelli, 1997; la tendenza si è invertita e si tenta di proporre una interpretazione del Löwith filosofo, e non semplicemente del Löwith storico della filosofia.
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25 Löwith non riconosce più una portata innovativa per la filosofia: «“La situazione spirituale
del tempo”, conforme alla riuscita caratterizzazione di Jaspers (1931), non sta più sotto il segno di Kierkegaard e neppure lontanamente sotto quello di Nietzsche».
26. Questo mutamento di prospettiva di Löwith crediamo possa essere compreso in riferimento a due ordini di ragioni: da un lato, da un punto di vista politico, filosofico e spirituale che tocca particolarmente la figura e la recezione del pensiero di Nietzsche..
Nietzsche e Kierkegaard non sono più, infatti, una guida filosofica e spirituale per la condizione – e conduzione – culturale della tarda modernità, nella quale assistiamo ad uno spostamento del baricentro del sapere, da sfera esclusiva e per pochi, verso la sua completa generalizzazione e massificazione. Dall’altro lato, la ragione è di tipo sociale e culturale in senso ampio. La società attuale tardo-moderna è talmente cambiata, ha talmente sovvertito i suoi principi e presupposti, da non seguire più, come un tempo, delle considerazioni strettamente spirituali e critiche come quelle nietzscheane o kierkegaardiane, che in passato hanno entusiasmato generazioni di intellettuali, in particolare, giovani. Quanti di noi tardo moderni, infatti, potrebbero ancora pretendere di essere “medici della cultura” alla Nietzsche, di sovvertire tutti i valori odierni o di mettere in gioco davanti al Dio biblico le sorti della propria esistenza? È avvenuto un mutamento generale dei tempi che non permette più una immedesimazione filosofica e spirituale sincera, giusta e critica allo stesso tempo, non solo con la filosofia di Nietzsche e Kierkegaard, ma con le stesse esigenze del loro tempo che sono, solo parzialmente, ancora le nostre.
(GENNAIO 2010)
Karl Löwith (1897-1973)
Nacque a Monaco di Baviera nel 1897. Fu allievo di Edmund Husserl e di Martin Heidegger all’Università di Friburgo. Nel 1936 – in quanto ebreo - fu costretto a lasciare la Germania a causa delle persecuzioni razziali. Visse alcuni anni in Giappone, dove rimase affascinato dalla filosofia zen; questa filosofia prospettava all'uomo un rapporto col nulla non improntato al nichilismo lo sollecitava ad abbandonarsi alla natura. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti e lavorò, tra l’altro, presso l’Università di Chicago. Fece ritorno in Germania nel 1952 e da allora si dedicò all’insegnamento presso l’Università di Heidelberg, città nella quale ha abitato fino alla morte, avvenuta nel 1973.
Karl Löwith considera lo svolgimento del pensiero europeo come un processo di secolarizzazione della visione teologico-biblica della storia, caratterizzata a sua volta dal profetismo, dall’attesa di un "futuro escatologico", e quindi dalla possibilità che ogni evento possa essere giustificato sulla base di uno scopo finale. Tale prospettiva prometteva una impossibile conciliazione tra il logos — la razionalità — cristianizzato, e l’imprevedibile mutevolezza dell’agire umano e degli eventi naturali; la riflessione degli stessi filosofi della storia ha finito per mostrarne il fallimento, con la caduta in un relativismo storicistico e nel conseguente decisionismo politico che riempie pericolosamente il vuoto lasciato dalla perdita degli antichi valori condivisi. La vecchia Europa era stata caratterizzata da uno Spirito unitario, da una idea di umanità e di finalità legata intimamente con quella di divinità. Questa idea di fatto la opponeva al resto del mondo. A partire dalla metà del XIX secolo tale unità "civile" dell'Europa è però andata in crisi sia per fattori esterni, quali l’emergere di potenze politiche extraeuropee come Russia, Stati Uniti e Giappone; e sia per le vicende interne, cioè l’affermazione del proletariato e del nichilismo pessimista ed irrazionalista. La crisi arrivò a compimento con Hegel. In effetti egli era l’ultimo pensatore in grado di tentare ancora una neutralizzazione del contrasto tra soggetto ed oggetto, o, meglio ancora, di colmare il divario tra esistenza dell’uomo ed essere del mondo. Egli era ormai il solo in grado di fermare la fine dell’epoca cristiana della filosofia occidentale, di porre rimedio alla moderna separazione tra uomo e mondo che aveva avuto inizio con la filosofia di Cartesio. Tuttavia neppure "la forza spirituale di Hegel non ha potuto arrestare la storia di questa separazione" (Nietzsche e l’eterno ritorno). Non che egli non l'avesse tentato. Egli fece questo tentativo mostrando chiaramente l’intrinseca contraddittorietà di quei concetti e proponendone, allo stesso tempo, la conciliazione attraverso una mediazione dialettica razionale. In tal modo questa scissione — che caratterizza tutta la modernità — raggiunge il suo apice. Di fatto, uomo e mondo erano stati intellettualmente divisi. Tutto del mondo e della storia è stato frantumato e rielaborato dalla potenza negativa dell’intelletto. Tale negatività non porta ancora al nichilismo, poiché rimane in qualche modo ingabbiata all’interno del sistema grazie al concetto di Spirito, cioè alla coincidenza di razionalità e divinità cui si è accennato sopra, che tiene ancora legati filosofia e mondo, ragione e storia. Ciò nonostante, "proprio mediante la sua conciliazione Hegel ha chiarito per tutte le epoche future che l’uomo e il mondo sono separati da quando nessun dio li tiene più uniti" (Nietzsche e l’eterno ritorno). Così, quando la fede condivisa in un Dio, in dei valori, nella razionalità viene a mancare, allora il nichilismo esplode e porta alla disintegrazione di questo sistema. Sicché Löwith, in Da Hegel a Nietzsche (1941), il suo testo considerato più importante, ricostruisce il percorso che dal compimento hegeliano del pensiero occidentale, mediante l’autoassoluzione dello Spirito e la sua conciliazione con il reale, porta alla definitiva dissoluzione del mondo cristiano-borghese officiata da Marx e Kierkegaard, e poi all’esperimento nietzscheano, attraverso la trasformazione della conciliazione in critica operata dai giovani hegeliani. Questi tentarono di dilatare la portata del sistema giunto a compimento applicandolo alla realtà socio-politica.