giovedì 9 maggio 2024   ::  
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(F.Goya - I Disparates)


  

 Linguaggio della Poesia

 

 Linguaggio della Follia

 


 

                            

autore: Pierangelo Scatena 

 

 

 

                                                            

       Introduzione

 

 

 

Le parole che decidono il mondo

hanno la libertà

della volpe braccata.

La loro astu­zia, è come un girotondo:

sta nell'oscurità

del senso rintanata

 

(P. Scatena).

 

 

L'uomo dà il nome alle cose, e con tale atto le cose cessano di essere solamente se stesse, diventano il loro nome e sono per l'uomo. «In princi­pio era il verbo».

Ogni natura in quanto si comunica, si comunica nella lingua, e quindi in ultima istanza nell'uomo. Perciò egli è il signore della natura e può nominare le cose. L'uomo è il soggetto della lingua, e per ciò l'unico (Benjamin, 1955, pp. 57-58)

 

Horkheimer e Adorno ci ricordano che la prima violenza fatta alla natura è stata la parola (Horkheimer e Adorno, 1947, pp. 28-29). Ma quella violenza era necessaria, perché nella dicotomia tra il simbolo e l'oggetto si producesse la «storia» come processo continuo di umanizzazione della natura. Il potere della parola è così forte che all'inizio i suoi padroni sono sacerdoti e maghi. La parola è «sacra». Essa infatti trasfor­ma il mondo, che come tale non esiste prima di essere detto, in qualcosa che, in mancanza di meglio, continueremo a chiamare l'«essenza dell'uomo» nel suo incessante costruirsi storico.

L'uomo abita dunque il linguag­gio, e al di fuori di esso non può trovare né il mondo né se stesso. «Il linguaggio non è uno strumento a disposizione, ma è l'evento che dispone della suprema possibilità dell'essere dell'uomo» (Heidegger, 1963, p. 121). Con la parola gli uomini codificano il mondo e gli danno senso, ma, parafrasando Marx, possiamo dire che non lo fanno in modo arbitra­rio, in un linguaggio scelto da loro stessi, bensì nel linguaggio che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinato dai fatti e dalla tradi­zione (Marx, 1869, pp. 43-45). L'uso del linguaggio presuppone quindi che esso ci parli e ci abbia parlato. La parola, inoltre, non è un atto individuale ma sociale, che presuppone e realizza la comunità.

 

II linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini (Marx, Engels, 1845, pp, 20-21). — E ancora — La lingua come prodotto di un singolo è un assurdo, (..) essa è tanto il prodotto di una comunità, quanto, per altro verso, è l'esistenza stessa della comunità, anzi la sua esistenza naturale (Marx, 1864, pp. 6-7).

La parola è fin dall'inizio lo strumento più importante della comunica­zione umana, anche se la comunicazione non esaurisce tutti gli aspetti essenziali del linguaggio; altri due aspetti, secondo Lurja, sono la codificazione dell'esperienza e la regolazione della condotta (Lurja, 1972). Con Jakobson possiamo distinguere sei diversi fattori della comunicazione: il referente, il mittente, il destinatario, il messsaggio, il codice e il contat­to. Ad ognuno di questi fattori possiamo far corrispondere sei diverse funzioni linguistiche, a seconda di quale scopo prevalga nel testo del «discorso». Abbiamo cosi le seguenti funzioni: referenziale, emotiva, conativa, poetica, metalinguistica e fatica (Jakobson, 1963). La funzione poetica, quindi, è in qualche modo connaturata al linguaggio. Così in ogni cultura e in ogni tempo può essere rintracciata qualche forma di espressione poetica.

Anche la «follia» sembra sia presente in ogni epoca e cultura. E la follia, in termini generici, è manifestazione deviante di comportamento e comunicazione, con caratteristiche specifiche che la dif­ferenziano da altre modalità di devianza. Foucault ci ha insegnato che, nella civiltà occidentale, «la storia della follia è la storia dell'Altro, di ciò che per una cultura è interno e nello stesso tempo estraneo, e perciò da escludere» (Foucault, 1966, p, 14).

Il costituirsi della «follia» come «malattia mentale» si è prodotto in Europa insieme al sorgere e svilupparsi della borghesia. II criterio di discriminazione tra ragione e non ragione si è fatto «scientifico». Eppure, nel loro aspetto di modi inconsueti della comunicazione, poesia e follia restano in gran parte irrisolte e sono accomunate dalla difficoltà di pene­trarne il «senso». Noi riteniamo che il loro accostamento, nell'analisi delle particolarità dei rispettivi «linguaggi», possa servire a comprendere meglio il «malato dì mente» nella pratica del rapporto terapeutico.

 

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL LINGUAGGIO DELLA POESIA

Mas eu, alheio sempre, sempre entrando o mais intimo ser de minha vida, vou dentro em mim a sombra procurando. (Ma io, straniero sempre, sempre entran­do nella profondità della mia vita, viag­gio dentro me l'ombra cercando)             (Pessoa, 1942-78, p. 216)

 

Parlare della poesia è un compito estremamente difficile, giacché la poesia è la novità radicale che si presenta nel mondo; come dice la sua radice greca, è l'atto stesso della creazione. Noi assolveremo questo com­pito rinunciando ovviamente ad una qualsiasi interpretazione dell'evento poetico e ci limiteremo ad alcune considerazioni relative alle caratteristi­che del linguaggio in cui la poesia si esprime, sulla traccia di alcuni degli Autori che in modo più diretto hanno affrontato il problema, primo fra tutti Jakobson.

Secondo Jakobson, considerando i due processi fonda­mentali di costruzione del discorso linguistico (selezione e combinazione), la funzione poetica proietta il principio di equivalenza dall'asse della selezione all'asse della combinazione (Jakobson, 1963). Il principio di equivalenza, al pari della similarità e dissimilarità, della sinonimia e del­l'antinomia, regola la selezione nell'atto di parola; mentre la costruzione della sequenza, il piano associativo, si basa sulla contiguità (paradigma e sintagma). Nel discorso poetico l'equivalenza è, secondo Jakobson, pro­mossa al grado di elemento costitutivo della sequenza, e questo avviene ad ogni livello del segno linguistico.

In poesia, non soltanto la sequenza fonematica, ma così pure ogni sequenza di unità semantiche tende a stabilire un'equazione. La sovrapposizione della similari­tà alla contiguità conferisce alla poesia quell'essenza simbolica, complessa, polisemica, che intimamente la permea e la organizza (Jakobson, 1963, p. 208)

 

È evidente che così l'accento viene posto sul messaggio per se stesso, e questo caratterizza il linguaggio poetico come sua funzione dominante. «Questa funzione, che mette in risalto l'evidenza dei segni, approfondisce la dicotomia fondamentale dei segni e degli oggetti» (Jakobson, 1963, p. 190). L'interesse rivolto al messaggio caratterizza così ogni forma di poesia, al di là della sua divisione in generi, quali l'epica (incentrata sulla terza persona che coinvolge anche la funzione referenziale), la lirica (orientata verso la prima persona e legata anche alla funzione emotiva) e la poesia della seconda persona, contrassegnata anche dalla funzione conativa (supplica od esortazione).

 

Della Volpe distingue un linguaggio comune che è equivoco, in quanto omnitestuale; un discorso fìlosofico-scientifico che è univoco, in quanto omnicontestuale; un discorso poetico che è polisenso, in quanto conte­stuale organico (Della Volpe, 1979). Ci sembra che l'interpretazione della-volpiana del messaggio poetico, al di là di una pur sostanziale differenza di terminologia, sia vicina alla precedente di Jakobson. Per Della Volpe, al polisenso, o polisemo, della poesia (altri direbbe iperconnotatività) si oppone l'equivoco del discorso «volgare», non meno che l'univoco del discorso filosofico-scientifico. Il valore espressivo polisenso della poesia è «una pluralità aggiunta di significati, indissociabile da un determinato contesto, perché da questo e per questo prodotta, che costituisce il pensie­ro o discorso poetico e la sua autonomia» (Della Volpe, 1979, p. 79). La poesia è dunque semanticamente autonoma, non presuppone che se stessa nel suo valore espressivo (il discorso filosofico o scientifico per esem­pio non lo è in quanto presuppone altri contesti). Che è come dire che l'interesse è rivolto principalmente al messaggio stesso. L'autonomia del discorso poetico da ogni altro contesto (che lo rende polisenso o polisemo) è anche ciò che, secondo Della Volpe, lo rende ambiguo; anche qui con­cordando con Jakobson, per il quale «l'ambiguità è un carattere intrinse­co, inalienabile, di ogni messaggio su se stesso; è insomma un corollario "della poesia» (Jakobson, 1963, p. 209). L'«autoriflessivita» della poesia non elimina dunque completamente il riferimento, ma lo rende ambiguo.

 

Anche Eco è d'accordo nel definire il messaggio a funzione poetica come «ambiguo» e «autoriflessivo». Eco fa notare che l'ambiguità, dal punto di vista semiotico, è definibile come deviazione dalle regole del codice. II fenomeno estetico (poetico) sarebbe quindi una deviazione dalla norma. «Si ha ambiguità estetica quando ad una deviazione sul piano dell'espressione corrisponde una qualche alterazione sul piano del conte­nuto» (Eco, 1979, pp. 329-330). Così il testo diventa autoriflessivo in quanto attira l'attenzione anzitutto sulla propria organizzazione semioti­ca. L'autoriflessività permette una «ipercodifica», un «surplus» che dal piano dell'espressione si trasferisce a quello del contenuto,

 

Sarebbe certo interessante analizzare ulteriormente, alla luce delle indi­cazioni di questi Autori, il messaggio poetico. Ma ciò ci porterebbe a superare i limiti delle nostre capacità e delle nostre competenze. L'analisi per esempio degli artifici retorici (quali il metro, il ritmo, il verso, la rima, ecc.), che contrassegnano l'espressione poetica e costruiscono l'ipersegno poetico quale modellizzazione iconica del segno» (Marchese, 1985, p. 91), ci allontanerebbe forse dal «discorso del folle» che, come tale, di solito, non cura gli artifici retorici. E in questo il linguaggio della psicosi, differisce ab origine da quello della poesia: il primo non vuole essere un «testo letterario» e si costruisce invece con i caratteri di un discorso «volgare», apparentemente comunicativo (con scopo referenziale, emotivo o conativo) e quasi mai intenzionalmente poetico. Non usa perciò né gli artifici né lo stile della poesia. Ci accontenteremo così, per i nostri scopi di un confronto con il linguaggio della follia, dì aver messo in evidenza alcune caratteristiche del discorso poetico: l'autoriflessivita, l'au­tonomia, la polisemia, l'ambiguità, la deviazione dal codice.

 

Ma un altro aspetto dobbiamo considerare, pure in questa sede, relati­vamente al discorso della poesia, ed è quanto si riferisce al ricevente del messaggio. Nella sua qualità di atto comunicativo, il testo estetico presuppone un destinatario. L'ambiguità e la polisemia del testo rendono il destinatario più che un consumatore un «produttore» del testo stesso. Infatti, «il testo poetico non è una struttura chiusa di segni, ma una sorta di galassia dì significanti, senza inizio, reversibile, a più entrate, irresponsabile» (Barthes, 1964), «Al destinatario viene richiesta una colla­borazione responsabile. Egli deve intervenire a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, a scegliere i propri percorsi di lettura» (Eco, 1979, p. 343). Come una delle città fantastiche di Calvino, Zemrude, il senso della poesia è costruito anche dal fruitore. «E l'umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma (,.) non puoi dire che un aspetto della città sia più vero dell'altro», (Calvino, 1977, p. 72). La corresponsabilità del lettore nella costruzione del messaggio poetico, che proprio per la sua ambiguità coinvolge l'altro nell'interpretazione più di ogni altro tipo di discorso, rende quindi particolarmente creativa l'opera poetica: qualcosa che “si fa” (poieo) continuamente pur rimanendo se stessa; un'opera aperta e infinibile.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL LINGUAGGIO DELLA FOLLIA  

 

 

Se sentiamo parlare un cinese, siamo por­-
tati a prendere le sue parole per un gor­-
goglio inarticolato. Chi capisce il cinese
,                                                                                                         vi riconoscerà invece il «linguaggio»

Così, spesso io non so riconoscere l'uomo nell'uomo                                                                  (Wittgenstein,   1977,  p.   17)

E chiaro che in questo lavoro il termine letterario «follia» indica quelle manifestazioni che in clinica vengono definite «psicosi». Del resto, è nelle psicosi che si ritrovano le più significative deviazioni dal linguaggio normale. In una comparazione con il linguaggio della poesia è utile re­stringere ancora di più la nostra analisi, limitandoci a quella particolare psicosi funzionale che chiamiamo «schizofrenia». E ciò non tanto perché in altre forme psicotiche manchino alterazioni linguistiche paragonabili a quelle letterarie proprie della poesia (basterebbe pensare al «discorso» delle forme maniacali così spesso mimetico degli artifici retorici poetici), ma perché ci sembra che proprio il discorso schizofrenico nella sua forma, ed ancor più nei suoi contenuti, abbia maggiori vicinanze (vedremo in seguito quali) con il linguaggio poetico. Anche cosi ristretto, il campo dell'analisi resta enormemente vasto. Ma non è nostra intenzione indaga­re tutti gli aspetti del linguaggio schizofrenico, per i quali rimandiamo agli studi dì altri Autori, e in particolare a quelli di Piro. Per il nostro interesse in questa sede ci limiteremo ad alcune considerazioni che posso­no servirci alla comparazione con l'espressione poetica. Per fare ciò, ci avvarremo delle ricerche di alcuni degli Autori che hanno specificamente analizzato il linguaggio schizofrenico.

 

Agli Autori classici (Kraèpelin, Schneider, Flegel, Ey, ecc.) si devono le descrizioni e le analisi delle varie deformazioni del linguaggio schizofre­nico che vengono accomunate nella definizione di «schizofasia», con vari tipi di classificazione che mettono in rilievo le caratteristiche del disturbo, sia sul piano sintattico che semantico. Ma più di un elenco dei disturbi, nella descrizione formale, che comunque può essere trovata in ogni buon trattato di psicopatologia, ci interessa qui segnalare alcune interpretazioni teoriche del linguaggio schizofrenico che possano aiutarci alla sua compa­razione con il linguaggio poetico. Senza soffermarci sugli Autori che han­no sottolineato l'uso ludico, non linguistico, del linguaggio psicotico, che confina spesso con un vero culto della parola considerata magica (logolatria), passeremo subito a ricordare quelle che ci sembrano le interpretazio­ni più interessanti.

 

Arieti è fra coloro che danno importanza al pensiero paleologico, magi­co e arcaico dello schizofrenico. Per Arieti, nella schizofrenia avrebbe particolare rilevanza il principio della «regressione teleologica», caratteriz­zata dall'uso di «livelli meno progrediti di integrazione psichica» con lo scopo di «evitare l'ansia». Si avrebbero cosi «forme arcaiche di raziona­lità» che avvicinano il pensiero schizofrenico a quello dei primitivi e dei bambini. In questo quadro assume importanza determinante il princi­pio di Von Domarus, secondo cui «mentre l'individuo normale accetta l'identità soltanto sulla base di soggetti identici, il paleologico accetta l'identità basata su identici predicati» (Arieti, 1955, pp. 179-180). Proseguendo in tale direzione, Arieti rileva che nello schizofrenico si ha una riduzione delle capacità di connotazione, per cui «l'universo dello schizo­frenico, del primitivo e del bambino è più vicino alla percezione immedia­ta, al mondo fenomenologico, e nello stesso tempo più lontano dalla verità del nostro mondo, a causa della sua estrema soggettività». Ne deriverebbe una «incapacità dello schizofrenico ad usare il linguaggio me­taforico». Insieme alla riduzione della connotazione vi sarebbe nel lin­guaggio, corrispettivamente, una prevalenza della denotazione e della verbalizzazione:

La parola, privata della sua connotazione (..) aumenta il suo tono emotivo, acqui­sta maggiore valore soggettivo (..) In altre parole diventa più vicina al livello percettivo. Perciò le idee sono espresse frequentemente con parole che descrivono immagini sensoriali (..) In molti casi, quando il valore della connotazione è perdu­to, l'attenzione dello schizofrenico si concentra sulla verbalizzazione, ovvero sulla parola considerata puramente come parola (Arieti, 1955, p. 199).

Altri Autori (Goldstein) hanno fatto notare la perdita delle capacità di astrazione dello schizofrenico e la sua tendenza al pensiero concreto e realistico (Goldstein, in Piro, 1967, pp. 162-163).

Barison, al contrario, ritiene che il pensiero e il linguaggio schizofrenici tendano all'astrazione e alla generalizzazione impropria, sicché l'espressione userebbe un livello astrattivo più elevato e con termini più generali di quanto sia lecito attendersi dal contesto (Barison, 1949).

Della vasta letteratura psicoanali­tica sul tema (che ha origine da Freud) ricorderemo che in generale il linguaggio schizofrenico viene interpretato come sottoposto alle leggi di quel «processo primario» che si manifesta pienamente nel lavoro onirico con i meccanismi di condensazione, spostamento, drammatizzazione e simbolizzazione. Ping-Nie Pao fa notare che il disturbo del pensiero dello schizofrenico (e quindi della sua comunicazione) «non può essere comple­tamente spiegato per mezzo del concetto di regressione dal funzionamen­to del processo secondario a quello del processo primario» (Pao, 1979, pp. 236-237). Riferendosi agli studi di Piaget sull'evoluzione cognitiva in quattro stadi (senso-motorio, pre-operatorio, delle operazioni concrete e del pensiero logico-formale), Pao esprime «l'opinione che quasi tutti i pazienti schizofrenici abbiano raggiunto in un certo momento il terzo stadio delle operazioni concrete, ma che molti non siano mai arrivati al quarto stadio del pensiero formale» (Pao, 1979, p. 239). Ciò spieghe­rebbe le oscurità della comunicazione in tali pazienti, non solo come spostamento del funzionamento dal processo secondario a quello primario, ma anche come regressione nel funzionamento del processo secondario stesso.

 

Lacan interpreta la struttura psicotica del soggetto come dovuta al mancato accesso all'ordine simbolico e alla legge del «nome del padre», che si verifica per quel «buco» nel tessuto significante rappresentato dalla «forclusione», che impedisce l'accesso alla strutturazione simbolica con la costituzione dell'Io nell'alterità (Lacan, 1966). Perciò il linguaggio (e l'universo simbolico) dello schizofrenico resta incentrato su lui stesso. Così lo psicotico usa le parole in modo personale e non universale e convenzionale. Le parole si rendono autonome dal codice e vengono usate come cose, si confondono con le cose che dovrebbero rappresentare. Lo psicotico quindi non può condividere l'interpretazione simbolica, comuni­cabile, della realtà con gli altri (Lacan, 1975).

 

Infine Piro, che si è interessato prevalentemente all'aspetto semantico del linguaggio schizofrenico, da lui ritenuto costantemente coinvolto nella comunicazione, nel libro Il linguaggio schizofrenico ha fornito la più com­pleta rassegna e l'analisi antropologica più approfondita su questo tema (Piro, 1967). Lo stesso Piro così sintetizza i risultati della sua ricerca:

Sul piano linguistico il linguaggio schizofrenico può essere considerato come un allentamento o una perdita dei nessi convenzionali che collegano il segno all'infra­struttura semantica fluente: 1) Fluttuazione dell'alone semantico: a) aumento dell'a­lone semantico: indeterminazione, vaghezza, genericità, trasferimento dei segni a un livello astrattivo superiore; b) restringimento dell'alone semantico: concretez­za impropria e trasferimento dei segni a un livello astrattivo inferiore; 2) Distorsio­ne semantica: traslazione dei segni ad altro insieme di relazioni semantiche, utiliz­zazione eventuale di segni nuovi; 3) Dispersione semantica: forte attenuazione dei nessi convenzionali fra segno e infrastruttura semantica; 4) Dissoluzione seman­tica: perdita dei nessi convenzionali fra segno e infrastruttura semantica (manife­stazione linguistica a-semantica come segno globale). A un diverso piano (linguistico-fenomenologico) appartiene la dispersione del significato emotivo: dispersione delle risonanze emotive in una diffusa atmosfera, in un «vissuto» (Erlebnis) peculiare (es., di perplessità, di estraneità, di sospensione, ecc.) (Piro, 1992, p. 116).

 

Ci fermiamo qui per quanto attiene all'analisi del linguaggio psicotico. A fronte della vasta letteratura sul tema, ci sembra che i pochi riferimenti sopra trattati siano sufficienti al nostro scopo. Certo non è facile trovare in tutte queste ricerche e nelle teorie che ne derivano elementi descrittivi comuni del linguaggio psicotico, anche perché, a seconda delle scuole di pensiero e dei modelli interpretativi del disturbo schizofrenico, spesso troviamo, anziché convergenze, differenze e contrapposizioni. Tutti gli Autori comunque sembrano d'accordo nel considerare le caratteristiche del linguaggio schizofrenico dovute ad alterazioni dei processi di astrazio­ne e di simbolizzazione, con un disturbo della relazione segno-significato che Piro ha sintetizzato nel concetto di «dissociazione semantica». Ci sembra che la perdita di contatto con la realtà (in qualche modo contenuta nel concetto di «autismo schizofrenico») si riverberi sul piano del linguag­gio in un suo uso idiolettico, in una perdita dei nessi logico-convenzionali che, all'interno del codice semantico di una data cultura, trattengono i segni linguistici (significanti) ai loro referenti comuni (significati).

 

DISCORSO DELLA POESIA, DISCORSO DELLA FOLLIA: somiglianze e diversità

Quando io uso una parola — disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante - essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi, né più né meno.

 (Carrol, 1865, p. 221)

 

La poesia fa parte della «letteratura», come sistema socio-culturale con regole, modelli, istituti propri, che la differenziano da qualsiasi altro tipo di discorso. Il testo letterario, inoltre, è un testo scritto, pensato e costrui­to per la stampa e la diffusione. In questo senso dunque il discorso della poesia è ben diverso dall'espressione verbale della follia. In quanto testo letterario, la poesia vuole essere un discorso intenzionalmente com­piuto, non rivedibile, che tende alla permanenza e alla fruizione non dialogica. Il discorso psicotico è invece di solito occasionale, dialogico, contingente. In questo le differenze tra poesia e discorso della follia sono le stesse che esistono tra la prima e qualsiasi produzione di comuni­cazione verbale. Non che gli psicotici non producano a volte testi pseudo-letterari (e magari anche letterari), ma noi vogliamo qui evidenziare analo­gie più generali che non quelle dell'appartenenza ad un corpus letterario. Con questo non vogliamo affermare che il linguaggio schizofrenico sia poetico solo perché presenta delle analogie con quello della poesia. Non bastano alcune somiglianze nell'uso semantico delle parole o nelle espres­sioni metaforiche per fare di un discorso un testo poetico. Certamente la vera poesia è ben altro. Ci proponiamo solo di rilevare alcuni aspetti comuni che possono servirci a comprendere meglio il mondo psicotico.

 

La prima analogia che si può notare tra poesia e follia è l'autoriflessività dei rispettivi linguaggi. Sull’autoriflessività del linguaggio poetico, in quanto rivolto principalmente al messaggio stesso, non ci sembra di dover insiste­re ulteriormente. Il linguaggio schizofrenico potrebbe essere meglio defi­nito come «autoreferenziale», in quanto incentrato prevalentemente sul soggetto parlante. Non è tanto il messaggio (come nel testo poetico) che viene investito dal discorso, è piuttosto la persona stessa che trasferisce direttamente nel linguaggio il proprio mondo di simboli e di valori indivi­duali. Si produce così un discorso che sembra riflettere soltanto se stesso. E’ questo il risultato, sul piano espressivo, della condizione autistica che domina tutta la vita dello schizofrenico e che gli preclude anche la possibi­lità di condividere il codice semantico. Il linguaggio comune (di tutti) è quindi usato in maniera personale, le parole si caricano di significati individuali al limite della comprensibilità. Quanto poi questo esprima una pur inconsapevole volontà di negare la comunicazione stessa è stato da altri sottolineato. Anche il poeta carica le parole di significati incon­sueti, ma non lo fa mai (o quasi mai) senza mantenere un sia pur criptico riferimento all'esperienza umana comune (magari anche solo letteraria), e comunque l'intenzione comunicativa rimane. Per intendere la poesia bisogna quindi conoscere la storia artistica e l'esperienza letteraria del poeta. Per comprendere il discorso dello schizofrenico si deve andare a fondo della sua storia personale e delle sue esperienze individuali. Nell'un caso come nell'altro non ci si può comunque accontentare del signifi­cato letterale e convenzionale delle parole. All'ambiguità quindi del di­scorso poetico, che deriva (come abbiamo visto) in parte dalla sua autori­flessività, corrisponde l'ambiguità del discorso della follia, spesso più oscura e di più difficile «scioglimento», giacché non servono alla sua interpretazione né paradigmi letterari né altri testi di confronto.

 

Ma l'ambiguità della poesia, come sappiamo, origina anche dalla «poli­semia» che in essa assumono i significanti verbali. L'alone semantico delle singole parole appare dilatato in una iperconnotatività evocatrice di molteplici sensi. L'aumento dell'estensione dell'alone semantico nel linguaggio schizofrenico (altre volte un suo restringimento) è già stato messo in evidenza (Piro).

Sulla questione c'è però una contrapposizione tra quanti sostengono che lo schizofrenico usa le parole ad un livello astrattivo superiore (generalizzazione) e quanti invece ritengono che le usa ad un livello astrattivo inferiore (concretizzazione). In ogni caso sa­rebbe presente una «dissociazione semantica» che altera il significato del­l'espressione verbale. Angelo, un nostro paziente schizofrenico, un giorno lancia via la propria dentiera nella piazza del paese affermando: «Tanto è un boomerang». Solo in seguito è possibile ricostruire le ragioni del gesto. Qualche tempo prima Angelo ha dimenticato la stessa dentiera in un bar e gli è stata poi riportata a casa, dunque è tornata indietro. La metaforizzazione, in questo caso tutta personale, di quella specifica dentiera in un boomerang viene esperita non soltanto sul piano ideativo. ma nella realtà concreta e come tale agita. È quindi a nostro parere possibile che lo schizofrenico usi termini più generali e astratti di quanto sia permesso nel linguaggio comune, ma lo fa conferendo alle espressioni una «indeterminazione» minore, ancorché personale.

 

La difficoltà di distinguere tra astrazione e indeterminazione rende spesso incomprensibile lo schizofrenico. Il poeta invece non opera di solito a livello astrattivo superiore, ma attraverso una dilatazione dell'alo­ne semantico delle parole. In ambedue i casi si ottiene un alto livello di ambiguità e quell'effetto di «straniamento» che deautomatizza il lin­guaggio, come messo in rilievo dai formalisti russi. Ma mentre per il poeta si tratta di donare nuovi significati alle cose, anche consuete, am­pliandone il senso, per lo schizofrenico si tratta di dare alle cose un senso tutto personale e determinato che le esclude dal codice comune e comunicabile. Così come le parole astratte acquistano un significato concreto ma individuale, anche le metafore (come abbiamo visto nell'e­sempio di Angelo) diventano realtà. La poesia fa largo uso di metafore. Sono metafore vive, inconsuete, che si contrappongono alle metafore mor­te del linguaggio comune e che danno all'espressione poetica la capacità di creare un nuovo ordine categoriale nell'immaginario del mondo. Ma restano pur sempre metafore, e come tali sono riconosciute. Per lo schizo­frenico invece la metafora, oltre ad essere del tutto personale, cessa di essere tale, diviene la realtà effettuale delle cose. Dunque nella poesia la «deviazione» espressiva crea un nuovo senso nell'ordine dei significati. Nella schizofrenia invece è il mutamento del senso del mondo che si esprime anche nei significati. Il risultato può apparire simile, ma il proces­so è inverso. «Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che la dicono, il pazzo carica tutti i segni d'una somiglianza che finisce col cancellarli» (Foucault, 1966, p. 65).

 

Così anche per le altre alterazioni semantiche, messe in evidenza da Piro nello schizofrenico (in particolare la distorsione semantica), il folle non carica i segni di significati nuovi, inusitati, al fine di evocare un nuovo senso nelle immagini del mondo (come cerca di fare il poeta); ma è il mondo stesso che ha cambiato senso e si esprime quindi in un discorso diverso, che usa le parole di tutti i giorni in un nuovo signifi­cato (paralogismi) o che ha addirittura bisogno di parole nuove (neologi­smi). Abbiamo faticato molto prima di capire cosa significa per Giuseppe l'affermazione che la sua «ulcera è un fatto demagogico», finché lui stesso non ci ha spiegato, in un discorso apparentemente incoerente, che essa è stata causata dall'effetto «magico» delle cure somministrate da medici-stregoni (de-mago-gia). Così come non è stato subito comprensibile perché lo stesso paziente usi il termine «nicodemi» per indicare persone da di­sprezzare. Poi siamo riusciti a ricostruire che Nicodemo è il nome dì un suo paesano straccione e disgraziato, per cui, generalizzando il nome proprio, sono diventati «nicodemi» tutti coloro che possono essere consi­derati partecipi di tale condizione. Il procedimento è legittimo, così come noi usiamo chiamare «caino» chiunque manifesti odio fraterno e tradimen­to. Ma in Giuseppe il procedimento è del tutto personale, non culturalizzato, e non necessitano spiegazioni che diano conto della sua generalizza­zione non condivisa. Ancora, nel suo universo fatto degli infiniti «plurali» di tutti i luoghi e di tutte le persone, che si ripetono in situazioni diverse innumerevoli volte (come nel racconto dì fantascienza Assurdo universo, scritto da Brown nel 1949, che il nostro paziente certo non conosce), Giuseppe ha bisogno di una nuova aritmetica per numerare la immense quantità di «se stessi» e i plurali degli altri e del suo paese coesistenti. Appare così nel suo linguaggio l'«one» (che riusciremo a capire corrispon­dere a un miliardo di milioni) con i relativi multipli («centilone», «millone»).

 

La poesia approfondisce la dicotomia fra i segni e gli oggetti; ciò accade anche nel discorso schizofrenico. Ma mentre il poeta usa consapevolmen­te, ad effetto estetico, l'ampliamento di tale «distanza», nel discorso psi­cotico lo «scarto» tra i segni verbali ed i referenti oggettivi è avvertito solo dal ricevente; il parlante presume la loro stretta aderenza, quasi che le parole diventassero le cose stesse che devono rappresentare. Quan­do ogni nesso fra segno ed infrastruttura semantica è andato perduto, si arriva nella schizofrenia alla dissoluzione semantica. Anche questa gra­ve alterazione linguistica può trovare analogie in certa lirica moderna, in cui sembra soppressa ogni intenzione di significato. Ma nella poesia permane pur sempre un «senso» interno al testo, per cui ogni segno significa comunque se stesso in quanto segno in rapporto agli altri. Lo stesso non può dirsi dell'«insalata di parole» del folle, che non ha più alcun riferimento alla comunicazione.

I due linguaggi, del poeta e dello schizofrenico, sono accomunati dal fatto di essere ambedue una deviazio­ne dal codice semantico. Per la poesia l'operazione di trasgressione del codice è stata sottolineata da vari Autori. Per Baudrillard:

l'operazione poetica viola le due leggi fondamentali del linguaggio: l'equivalenza significante/significato e la linearità del significante (p. 214) - questo dà alla poesia il valore di un'opera di distruzione — l'intensità del poetico non è mai nella ripetizione di una identità, essa è nella distruzione di una identità (p. 222) — perché — il poetico è il luogo delia nostra ambivalenza di fronte al linguaggio, della nostra pulsione di morte di fronte al linguaggio, della potenza adatta alla sterminazione del codice (Baudrillard, 1976, p. 224).

 

Ma la distruzione del codice semantico può essere un'operazione rivoluzionaria 

 

La poesia che opera sulla dicotomia significante/significato e che tende a cancellar­la, sarebbe il grido anarchico contro la posizione tetica e socializzante della lingua sintattica: disperde ogni comunità, la distrugge o si identifica con il momento della sua  sovversione (Kristeva  1968, p.  69).

Il discorso psicotico non può mai giungere alla dignità della rivolta poetica. In quest'ultima, la funzione simbolica, per quanto aggredita, rimane almeno nella volontà di produrre una nuova forma, un nuovo universo di senso da trasmettere. Nello psicotico, invece, si assiste soltan­to al «crollo della funzione significante». Nella psicosi si ha «l'annullamen­to della legalità simbolica affinché l'arbitrarietà di una pulsione priva di senso e di comunicazione la sostituisca, nello smarrimento di ogni punto stabile» (Kristeva, 1968, p. 172).

Se la repressione, come afferma Galimberti, non si esercita tanto nell'ordine degli istinti, come credeva Freud (Galimberti, 1989, p. 149), ma in quello dei significati, allora il rifiuto del codice semantico comune appare forse l'unica ribellione possibile. «La rivoluzione è simbolica o non è affatto» (Baudrillard, 1976, p. 219). Così il poeta e il folle sembrano partecipare di una stessa soggetti­vità sovversiva che abolisce la legalità del codice. Ma mentre la trasgressione poetica viene accettata, socializzata, ed anche premiata (almeno dalla comunità dei letterati), la trasgressione del folle viene rifiutata, isolata, ed anche punita (almeno dalla comunità degli psichiatri). Il discor­so del poeta si pone nella luce dell'apertura al senso e al possibile, il discorso del folle somiglia al buio e alla disperazione.

NOTE CONCLUSIVE SUL CODICE SEMANTICO DEGLI SCHIZOFRENICI

  

Al di là del soggettivo, al di qua dell'oggettivo,

                  sullo stretto crinale 

              dove Io e Tu si incontrano,

     si trova il reame di «in mez­zo».       

 (Buber, cit. in Montagne e Matson, I linguaggi della comunicazione umana)

 

Entrambi, il pazzo e l'artista, sono attraversati dalla dinamica del profondo, dai moti a grammatica e sintassi speciale dell'Es, dalle sue emozioni. E tuttavia solo nell'arti­sta (o meglio nel prodotto artistico) l'Io, invece di soccombere travolto, smonta e rimonta, restituisce trasformata la sovradeterminazione di ogni segno, componendo­la in un senso multiplo di cui sono esposti i rimandi contestuali necessari alla comuni­cazione, che rimangono invece avvolti nel segreto del sogno e della psicosi — quindi — la psicosi non sa di rappresentare, prende la finzione mimetica per reale (Madera., 1991, pp. 83-97).

 

È chiaro che noi abbiamo parlato di una «schizofrenia ideale», quale solo raramente è dato osservare nella realtà. Cosi anche le particolarità del linguaggio schizofrenico, che abbiamo analizzato e discusso nel confronto con la poesia, sono, per così dire, «estremizzate» in un tipo ideale che quasi mai incontriamo in «situazione pura».

Di solito lo schizo­frenico si situa nel linguaggio comune apportando modifiche e deforma­zioni personali (più evidenti nei momenti di crisi) nel tessuto significante convenzionale. E ciò è tanto più vero per l'incontro che si verifica con lo schizofrenico nella pratica territoriale, dove tutta la sua patologia tradi­zionale (quella descritta nei manicomi) appare sfumata, «I quadri clinici si scolorano, si trasformano. Le forme altamente incoerenti di linguaggio schizofrenico non si vedono più tanto frequentemente quando si lavora nel territorio» (Piro, 1992, p. 103). Il territorio impone anche allo schizo­frenico il mantenimento di un certo legame sociale, che era invece com­pletamente abolito nella separatezza manicomiale; perciò anche il suo linguaggio non può isolarsi del tutto, deve mantenere qualche connessione con il codice comunitario. Resta comunque vero che «i bambini, i poeti e i matti non hanno accettato la regola generale per cui ciò che si dice deve sempre avere un significato chiaro, ristretto, riconoscibile e social­mente consensuale» (Piro, 1992, p. 63). Per il bambino sarà solo questio­ne di «tempo», per il poeta (anche se considerato dal «vulgo sciocco un pitocco») è questione di «cultura», per il matto si tratta invece di «malattia», «Le nostre conoscenze (comprese le percezioni) sono influen­zate e connesse al sistema linguistico che possediamo e al gioco in cui lo usiamo» (Wittgenstein, 1992, p. 162)

 

 Con buona pace del «compagno» Stalin, la lingua, nelle sue condizioni d'uso, è la coscienza collettiva; come tale è strettamente connessa anche alla «sovrastruttura». È questo che la rende lo strumento più potente di ideologizzazione.

Sono proprio le leggi di una data lingua storica ad imporre un certo modo di pensare, «La lingua non è ciò attraverso cui si pensa, ma ciò con cui si pensa, o addirittura ciò che ci pensa e da cui siamo pensati» (Eco, 1973, p. 106). E naturalmente ciò non avviene in modo neutrale, ma secondo le determinazioni del potere e del dominio di classe. Per cui sarebbe necessario criticare le leggi linguistiche per mettere in questio­ne il nostro modo di pensare e, con esso, il potere che attraverso tali leggi si giustifica e si mantiene.

 

Lo schizofrenico non accetta il codice semantico convenzionale, si pone (almeno in parte) fuori dalle regole linguistiche della propria epoca e della società, per seguire invece modi del tutto personali e privati di codificazione e decodificazione della realtà. Ci sembra che tale «deviazione» sia più evidente nella relazione semantica (dissociazione semantica) che in quella logica (dissociazione logica). Lo sanno bene gli psicoanalisti che hanno difficoltà a sottomettere alla loro psicoterapia gli psicotici. La psicoanalisi tradizionale ha un proprio codice semantico, che deve essere condiviso dagli analizzandi, ma non riesce ad imporlo agli schizofrenici, perciò li ritiene pregiudizialmente inadatti ai suoi metodi canonici di cura. Siamo convinti, come Piro, che la disso­ciazione semantica non possa essere semplicemente interpretata come una regressione ad un livello «paleologico» del pensiero (Piro, 1967).

La ricchezza di elementi mitici, rituali, fantastici nel pensiero schizofrenico è, insieme, una scoperta e una valorizzazione di ciò che di irrazionale è proprio dell'uomo e che la civiltà incanala, controlla, maschera ed attenua, ma che non può certamente eliminare — così - la psicosi è insieme ripresa di tematiche individuali e infrazione del tacito divieto di esprimere il pensiero magico (Piro, 1986, p. 123).

Si potrebbe credere che, ponendosi fuori dalle regole del codice, il pensiero dello schizofrenico esprima una maggiore libertà rispetto ai con­dizionamenti linguistici a cui tutti noi, i «normali», siamo costretti da che non siamo più bambini e non riusciamo ad essere (se non in alcuni momenti) poeti. In realtà lo schizofrenico è ancora meno libero di noi che abitiamo il linguaggio «normale». Non c'è in lui la consapevolezza critica della trasgressione, né la volontà di costruire un nuovo ordine simbolico che si contrapponga a quello vigente nella società. Manca così quella «apertura al senso» che sola può permettere un esercizio maggiore della libertà. Chiuso nel suo mondo privato di simboli e fantasie non socializzabili, lo schizofrenico, rifiutandosi alla comunicazione con gli al­tri, rifiuta al tempo stesso la possibilità del mutamento, della trasforma­zione di se stesso e del mondo. È per questo che spesso, nonostante la fantastica ricchezza di miti e di simboli, si ha l'impressione di angustia, di immobilità, di stereotipia e di chiusura di fronte al mondo psicotico. Foucault ha dimostrato che ogni strategia discorsiva è anche una strategia di esclusione: la «normalità» del linguaggio serve per escludere il diverso, tutto ciò che non è riconducibile alla norma dominante (Foucault, 1970). Perciò l'avventarsi senza progetto da parte della follia contro i limiti del linguaggio, contro le sbarre della nostra gabbia, è assolutamente dispe­rato.

 

 

Il confronto con la poesia crediamo possa comunque fornirci alcune ipotesi di «lettura» che aiutino a comprendere il linguaggio e il pensiero dello schizofrenico. Come abbiamo visto, alcune sue deformazioni acqui­stano qualche comprensibilità proprio se paragonate ad analoghe deviazio­ni presenti nell’espressione poetica, al di là di meccanismi e motivazioni diverse alla base delle «trasgressioni».

 

Abbiamo già rilevato l'importanza della corresponsabilità del lettore nella costruzione del «senso» di un testo poetico. L'interpretazione della poesia ci appare pertanto vicina a quella attività maldefinibile di «scoprimento» (ma noi diremmo piutto­sto «creazione») del senso propria dell'ermeneutica. Qualcosa di analogo crediamo debba accadere nel rapporto terapeutico con lo psicotico. La creazione di un senso, pure nella disperazione della follia, è forse lo scopo fondamentale della terapia delle psicosi, al di là delle necessità momentanee di contenimento dell'angoscia. Il senso non può essere né «portato» dal paziente, né «imposto» dal terapeuta. Deve «crearsi» nel confronto tra la particolare alienazione dei bisogni dell'individuo e le possibilità offerte dalla «terapia» di esprimere i bisogni in una socialità anche irriducibile a sistema. Se già in ogni incontro, anche banale, ognuno di noi realizza parte della propria individualità umana in quel reame di «in mezzo» di cui ci parla Buber, ciò dovrà essere ancora più vero nel rapporto con lo schizofrenico. Se l'incontro è reale (e certamente un incontro vero è qui ancora più difficile), allora è possibile penetrare anche nell'autismo della psicosi. «II disordine psichico è caratterizzato da una dinamica disintegrativa rispetto a qualsiasi ordine culturale, a qualsiasi sistema di valori intersoggettivi» (De Martino, 1977, p. 175). Ma proprio per questo è necessario creare una intersoggettività nuova che ridoni «ragione» a tutto ciò che sembra averla definitivamente perdu­ta. È possibile innanzi tutto riaprire la comunicazione tra persone. Non è compito di questo lavoro affrontare il tema complesso della psicoterapia delle psicosi. Sappiamo che il prendersi «cura» degli schizofrenici è estre­mamente difficile: ha i contorni di un'operazione aperta e infinita, da costruire insieme nel rischio reciproco della trasformazione. È’ come la decifrazione di un poema di cui si è perduta la chiave.

 

Riassunto

Riuscire a penetrare la «incomprensibilità» del mondo psicotico è premessa necessaria e ineludibile per riaprire una comunicazione tra persone che permetta anche il trattamento psicoterapeutico. L’autore ritiene che gli stru­menti interpretativi del linguaggio poetico possano riuscire utili alla decifrazione di un discorso come quello schizofrenico che, anche se non è «poesia», ne utilizza meccanismi di deviazione semantica. L'analisi delle caratteristiche specifiche dei due «linguaggi» permette quindi un confronto che fornisce ipotesi di lettura per comprendere il pensiero degli schizofrenici e apre a interpretazioni possibili sul «mondo della follia».

 

   Summary

 

   To succeed in passing through the psychotic world's «incomprehensibility» is the necessary and inevitable premise in order to reopen interpersonal communication which allows the psychoterapeutic treatment to take place. The Author thinks that poetic language's interpretive tools can reveal themselves useful to deciphering a discourse which, like the schizophrenic one, uses the same mechanisms of semantic deviation used by the poetic discourse. The analysis of the specific traits of these two «languages» enables us to make a confrontation which supplies reading hypotheses useful to understand the schizophrenic patients' thought, and it opens the way to a series of possible interpretations regarding the «nutty world».

 

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Pubblicato su “Psicoterapia e scienze umane” Fasc. 2, 1995 (F. Angeli Editore

28 settembre 2013 autorizzato per aminAMundi

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