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DEVI CAMBIARE LA TUA VITA  di Peter  Sloterdijk

Collana: scienza e idee, Cortina Editori  - 2010


                                             Note di  Fabriano Sara

                                                      settembre 2013               DSC01746.JPG


 

Con questo libro,  Peter  Sloterdijk ci dice  che la nostra società è alla deriva. Dobbiamo cambiare vita.

Dobbiamo cambiare vita  diventa quindi l'imperativo categorico di questo libro ma, che cosa significa per l'autore?

«È quello che io chiamo imperativo assoluto. Una sorta di provocazione insormontabile. Che si muove su una sconvolgente scoperta, fatta agli inizi delle così dette civiltà avanzate: l'uomo è un essere stratificato. Del resto l'idea è presente, ai giorni nostri, nell'opera di Freud. Quando descrive l'anima la raffigura come una regione su tre piani: nel solaio, al primo piano, abita il super-io; nel pianoterra c'è l'io; nello scantinato c'è l'es. Da questa stratificazione si sviluppa quella che chiamo tensione verticale».

Da questi stadi dell'essere è possibile  risalire con virtuosismo. Il virtuosismo del pensiero è possibile ed è forse, l’unica forma di pensiero.
Il perno su cui ruota questo libro è dunque un esercizio ascetico,  una serie di pratiche  che spingono l’essere umano al di là delle proprie possibilità di partenza. L’analisi dell’ascesi scaturisce da una riflessione sulla religione  che fa leva sull'esercizio spirituale.  Sloterdijk rimuove la distinzione tra superstizione e religione (semmai esistono solo pratiche che si diffondono di più rispetto ad altre) e tra credenti e non credenti, per sostituirla
con la «distinzione tra praticanti e chi non si esercita, o meglio, chi esegue esercizi diversi» (pag. 6), ove con ‘esercizio’ si intende «ogni operazione mediante la quale la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio» (pag. 7).
L’insieme degli esercizi praticati dall’essere umano sono volti a migliorare la propria condizione in senso lato, con lo scopo ultimo di scongiurare la morte. Ogni essere vivente sviluppa dei sistemi immunitari che lo difendono dai pericoli esterni.

L’uomo ha sviluppato tre sistemi immunitari: il primo è quello biologico; il secondo riguarda «le pratiche di tipo giuridico e solidaristico, ma anche militare» (pag. 13) e serve a proteggere un individuo o una comunità dalle relazioni pericolose della vita sociale; il terzo, quello che più interessa a Sloterdijk, riguarda «le pratiche simboliche ovvero psicoimmunologiche, con l’ausilio delle quali, fin dai tempi antichi, gli esseri umani riescono a far fronte più o meno bene alla loro vulnerabilità dovuta al destino, inclusa la mortalità, attraverso misure di prevenzione immaginaria e di equipaggiamento mentale» (pag. 13).

Il concetto di antropotecnica si innesta su questo terzo tipo di sistema immunitario.

L’antropotecnica è l’insieme di quelle pratiche effettuate dagli essere umani per migliorare il loro sistema immunitario e proteggersi dai pericoli, ossia «le condotte mentali e fisiche basate sull’esercizio, con le quali gli esseri umani delle culture più svariate hanno tentato di ottimizzare il loro status immunitario sia cosmico sia sociale, dinnanzi a vaghi rischi per la propria vita e a profonde certezze di morire» (pag. 14).
Proprio per via di questo,  l’essere umano vive costantemente sotto il giogo dell’autoproduzione di sé, del mantenimento o del miglioramento delle proprie prestazioni. Questo fenomeno contraddistinguerebbe l’uomo da quando lo conosciamo, poiché lungo tutto il corso dei secoli si sono effettuati gli esercizi più disparati. Tuttavia, è nel nostro secolo che viene raggiunto l’apice, tanto che Sloterdijk afferma: «È tempo di disvelare l’essere umano come quell’essere vivente che nasce dalla ripetizione. Così come, dal punto di vista cognitivo, l’Ottocento si trovava sotto il segno della produzione, mentre il Novecento sotto il segno della riflessività, l’avvenire si presenterà sotto il segno dell’exercitium» (pag. 7).

L’uomo viene considerato come un essere in difetto per essenza, al quale manca sempre qualcosa che deve imparare a ottenere, a conquistare. La conquista è situata a un livello superiore, per questo egli vive una costante tensione verticale.  Essere superiori - salire in alto - fare del proprio progresso una scalata sociale è oramai un luogo comune che ha attraversato  l'Occidente. L'analisi di Sloterdijk metaforicamente chiama "storpi" coloro che si sentono individui in difetto e sempre alla ricerca di un miglioramento che li eleva al di sopra e quindi li pone ad un livello di superiorità rispetto alla  normalità.   Se le cose stanno in questo modo, allora tutti gli uomini sono storpi che si esercitano per mantenere lo standard della normalità o innalzarsi al di sopra di essa. Senza esercizio lo storpio (ossia ogni uomo) sarebbe tagliato fuori irrimediabilmente dalla norma. Una definizione utilizzata riguardo ai nani è molto istruttiva e può essere estesa a tutti gli uomini. Dapprima «gli individui affetti da nanismo vennero classificati come storpi in relazione alla crescita» (pag. 74). In seguito vennero chiamati “handicappati in relazione alla crescita dimensionale”; dopo che anche la parola “handicap” divenne politicamente scorretta, vennero definiti “diversamente abili in relazione alle dimensioni”. Infine, negli anni Ottanta del Novecento furono battezzati “persone alle prese con la verticalità”. Sloterdijk ritiene che questa definizione esprima una condizione essenziale non solo dei nani ma di tutti gli uomini che cercano di appropriasi di abilità per acquisire una migliore posizione ma paradossalmente  «Non è l’andatura eretta che fa dell’uomo un uomo, ma è la consapevolezza embrionale del divario interiore che porta l’uomo in posizione eretta» (pag. 74).
È per questo che, condannati a una connaturata insufficienza fisica e a un perenne desiderio di miglioramento e perfezionamento, «in qualunque luogo si incontrino membri del genere umano, essi rivelano ovunque i tratti di un essere condannato a compiere una fatica surreale. Chi cerca esseri umani troverà acrobati» (pag. 19).

L’acrobatica (ossia l’essenza del modo di vivere umano) fa sì che ogni cosa che in precedenza appariva ardua, progressivamente venga vista come sempre più semplice, fino a che acquisisce lo statuto di normalità; di qui l’eterna tensione che porta a innalzare i canoni della normalità e a spingersi sempre più oltre:

L’umanità è in perenne tensione, è sempre sospesa su una fune che percorre in punta di piedi, tra tribolazioni e rischi mortali: è per questo che «chi cerca uomini trova asceti e chi osserva asceti scopre acrobati» (pag. 76).
L’improbabile rasenta l’impossibile, è una possibilità quasi impossibile; quanto più si accosta all’impossibile, tanto più è vicina alla morte se è vero che, per dirla con Heidegger, la morte è la possibilità dell’impossibilità. L’acrobazia è acciuffare la realtà della morte per scagliarla sempre più oltre. L’acrobata tende all’impossibile, ossia alla realtà della morte. Camminando sulla corda dell’improbabile, il funambolo è sempre sull’orlo del precipizio, ma costantemente al di sopra della morte. Solo quando cade il funambolo è reale. Il movimento verso la morte è all’origine della rivoluzione, che parte necessariamente dal soggetto.

Il principio sovversivo, o meglio, sopravversivo, non alberga nell’Über di Überheblichkeit (arroganza), né alberga nell’hyper di hybris o nel super di superbia, ma nell’“acro” di acrobatica. Il termine “acrobatica” rimanda all’espressione greca usata per indicare il camminare sulle punte dei piedi (da akros, alto, in cima, e bainein, andare, camminare). Designa la forma più elementare della naturale contronaturalità.» (pag. 155).
Ecco che così un libro austero sul perfezionamento virtuosistico si ammanta di una patina circense e ludica, che costa sacrificio, ma che permette di giungere a qualcosa che i filosofi hanno stentato a riconoscere, ossia al superuomo. Con la morte di Dio «è morto anche il suo vassallo, l’uomo come lo abbiamo finora conosciuto» (pag. 141). Non potendosi più rappresentare dio, l’uomo è privato di simboli. Dunque se si vuole trovare un sostituto all’uomo simbolico che si rappresentava dio non si può che rivolgersi a una nuova categoria, che sia più animale dell’uomo com’era e al contempo vada oltre questo tipo di uomo.

L’esistenza stessa, non solo quella dell’uomo, anche considerata da un punto di vista meramente biologico si presenta come la più ardua delle acrobazie: un’immensa varietà di forme ha attraversato la vita in punta di piedi, su una fune sospesa sopra l’abisso dell’estinzione: «Ogni artista, ossia ogni specie, cerca di realizzare l’acrobazia delle acrobazie, vale a dire sopravvivere» (pag. 144).

Considerato che circa il novanta per cento delle specie finora comparse sulla terra si è estinto, «il concetto di “rischio professionale” assume un significato per nulla triviale. Da questo punto di vista, la biologia diventa una "thanatologia storica" (pag. 144).
In questo quadro, il superuomo non si riferisce a nessuna modificazione genetica o direttamente corporea dell’uomo. L’ascesi muove il corpo facendogli toccare vette improponibili alla normalità; il superuomo è un acrobata circense: esso «non implica alcun programma biologico, bensì un programma circense, per non dire acrobatico» (pag. 139).

La spinta verso l’ascesi non proviene da un’istanza trascendente, né tantomeno si tratta di un comando divino. In realtà, anche se il meccanismo non è del tutto chiaro (spinta sociale? Istinto individuale? Condizionamenti culturali o psichici?) è una sorta di voce interiore che comanda il cambiamento di vita che si dovrà effettuare. Il monito “Devi cambiare la tua vita” è l’imperativo assoluto «che supera l’alternativa tra ipotetico e categorico» (pag. 33). Addirittura la rivoluzione (coniugata alla seconda persona) comincia da questo imperativo (cfr. ibidem).

La voce che impone questo cambiamento è come se provenisse da una dimensione superiore ma interna al soggetto, come se rappresentasse la parte migliore della volontà: «Io vivo, ma qualcosa mi dice con autorità inconfutabile: non vivi ancora correttamente. L’autorità numinosa della forma gode del privilegio di rivolgersi a me con un “tu devi”: è l’autorità di una vita diversa da questa vita» (ibidem).
Tuttavia, c’è da considerare che l’uomo non è connaturatamente un soggetto. Spesso si ripete che il soggetto è una costruzione. Se questo fosse vero, l’ipotesi di Sloterdijk sarebbe illuminante, in quanto il soggetto non è, ma diviene, perché è soggetto «chi si dedica a un programma per eliminare da se stesso la passività e passa dal mero essere-formato al versante del darsi-forma» (pag. 239). Questa attivazione, o fuoriuscita dalla passività, prende il nome particolare di ‘conversione’. Essa non significa cambiare idea, passare da una credenza a un’altra, ma è il divenire soggetti, soggettivarsi, passare dalla passività all’attività. Per questo le conversioni comunemente intese non lo sono affatto, almeno stando a questi termini. È l’esercizio che fa il soggetto; ogni esercizio è un’ascesi che conduce all’acrobazia. Sloterdijk radicalizza l’affermazione di Nietzsche per cui la terra sarebbe una stella ascetica e giunge a dire che il nostro pianeta è la stella acrobatica (cfr. pag. 240), ove per acrobatica si intende la pratica che fa «apparire l’impossibile come un facile esercizio» (ibidem).

L’uscita dalla corrente, ossia la conversione da uno stile di vita comune all’ascesi acrobatica, deve avvenire in tre modi, in quanto ci sono tre sponde, tre mete a cui si deve giungere: bisogna passare sull’altra sponda delle passioni, «per essere padrone del patimento; [...] sull’altra sponda delle abitudini, per non limitarsi a essere posseduto, ma per possederle»; infine, «osservando che la sua psiche è popolata da idee confuse, [il soggetto] comincia a capire quanto auspicabile sarebbe giungere sull’altra sponda di idee, per [...] sviluppare idee logicamente stabili» (pag. 238).

Questi tre cambiamenti di sponda hanno permesso la fondazione di una nuova disciplina che Platone ha chiamato ‘filosofia’, modellando la parola sui termini filotimia (l’amore per la fama attribuita ai vincitori nelle gare) e filoponia (l’amore per la fatica, lo sforzo).
Tuttavia, il motto che fa da titolo al libro assume un significato del tutto particolare nella nostra condizione storica. L’attuale modello di società capitalistica occidentale ha quasi del tutto messo al bando l’ascesi e con essa la fuga dal mondo: «Ci vengono garantiti tutti i diritti umani, escluso il diritto di espatriare dalla concretezza. Per questo, con il passare del tempo, spariscono le enclave meditative e si sciolgono le convivenze di chi professa l’estraneità al mondo. Si spopolano i deserti salvifici, si svuotano i conventi, i vacanzieri subentrano ai monaci, le ferie sostituiscono la fuga dal mondo. I mondi intermedi del relax conferiscono senso empirico al cielo e al nirvana» (pag. 538).
Così l’imperativo “Devi cambiare la tua vita” riflette la nostra condizione mondiale e indica che «nel mondo attuale l’unico fatto di significato etico universale è l’idea, sempre più diffusa ovunque, che le cose non possono più andare avanti così» (pag. 545). «Da quando è iniziata la catastrofe globale, con il suo parziale disvelamento, è comparsa nel mondo una nuova configurazione dell’imperativo assoluto, che si indirizza a tutti e a nessuno sotto forma di severo ammonimento: cambia vita! Altrimenti prima o poi il completo disvelamento della crisi vi dimostrerà che cosa vi siete lasciati sfuggire all’epoca dei segni preliminari» (pag. 547).
In questo contesto, la filosofia assumerebbe una nuova funzione: non più  trascinante verso un mondo migliore rispetto all’Età del Ferro di un mondo fatto di stenti; bensì diviene una narratrice, «un consulente incaricato,  uno studio di traduzione, che trasforma il sapere eroico in sapere civile» (pag. 520).  Ora, la Grande Catastrofe, se mai dovesse avvenire, può verificarsi solo perché in passato l’Occidente è risalito dall’Età del Ferro, fatta di stenti, all’Età dell’Argento, che si contraddistingue per la progressiva e pervasiva esclusione delle ascesi. Per mantenere gli standard di vita occidentali dell’Età dell’Argento, Sloterdijk propone di ritornare a una civiltà fatta  da una sorta di regola monastica. Questa nuova Età dell’Argento, così mantenuta e perpetuata, in cosa sarebbe, allora, diversa dall’Età del Ferro dalla quale vuole preservarsi? Manterrebbe solo la struttura dell’Età dell’Argento - cambiare la propria  vita - abbandonare  ogni pretesa dell’Età dell’Argento. Solo allora «il Paese del sorriso» sarà «abitato da acrobati storpi  e virtuosi» (pag. 59) quindi non è facile pensare ad un virtuosismo che rigidamente non accetta mezze misure e si ottiene al prezzo di rinunciare al mondo, viene anche da domandarsi se si rinuncia al mondo come  ci si mantiene? L'idea dell'autore è senz'altro molto stimolante ma, riservata a chi oggi può permettersi
 di vivere di rendite? Ossia non ha bisogno di lavorare per fare l'asceta? Certo queste ultime domande sono lecite in un clima in cui  ogni questione fa i conti  con la "pratica economica"  come sostiene l'autore - cambiare desideri - significa  innanzi tutto  cercare di  cambiare i profitti del proprio lavoro per  metterli a beneficio di un miglioramento  che non cerca e non sfrutta le scalate sociali  più ardue e  pericolose per la propria esistenza civile.


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