
GUERRANIMA
autrice: Miriam Luigia Binda
edizioni Helicon, Arezzo, 2013
Il tempo degli insetti
gli insetti nel filo della ragnatela
chiusi nei cerchi....
Ti ricordi quando eravamo piccoli?
la luce di un faro, s’accendeva con la manovella a mano
sulla spiaggia c’erano i bagnini
con le canzoni di Don Baki e Celentano
le mamme portavano i bambini
sul bagno asciuga con un pallone gonfiato
(pubblicità Kodak) a strisce rosse e blu
poi sul viso, si stringevano le nuvole
sorridevano anche i gatti con lo sguardo di un bambino
le mani grandi zappavano la terra
con i segni del grano e del sudore
la fatica non era il laccio della disperazione!
La domenica le fabbriche erano chiuse
ma lunedì si riaprivano i portoni
e si vedevano in giro tanti lavoratori.
Ti ricordi quanti bambini
con in testa l'idea di una battaglia
con i bottoni nuovi .... l'avanguardia letteraria
un mandala sui neologismi di Kant!
Tramonta - In prima fila, l'Occidente!
Tu, Mister Haid o Adam Smith
Intropido o piccolo semplicemente
grande uomo hai perso la tua bandiera?
Intanto il ragno tesse inesorabile la tela
se qualcuno la giudica blasfema
non capisce la messa in suo potere!
E' un ragno spaventoso ha un profilo
sopra Facebook
contatti elettronici a sua immagine e somiglianza.
Mi piace stare nel prato
con la bellezza di un cielo stellato
la ragnatela ha un'armonia
nel suo filo: la fragilità.
Gli insetti nel filo della ragnatela
chiusi nei cerchi....
non vedono la fine
nella rete il prossimo futuro.
(poesia tratta da GUERRANIMA (2013, ed.Helicon)
Postfazione al testo a cura del critico: ANDREA PELEGRINI
Fra le pieghe dell’epidermide elegiaca di queste liriche si annida un’insistente etica e la voce di Miriam Luigia Binda filosoficamente testimonia infausti confini umani quanto diversità ineluttabili. È ben costruito, questo libro. Artatamente distribuito nelle fondazioni strutturali. Sviluppato su fioriture improvvise di sintagmi enigmatici e quasi sempre travalicanti e discordi. Addolcito da epiteliali velature liriche, ma intricato nel frattempo da avvisi cerebrali mai mediati e da rimandi filosofici mai generici: e indica, la voce di questo libro, con insistenza perentoria un punto. Sempre lo stesso: il punto, a parer nostro, del confine.
Quella zona misteriosa che coincide con lo spazio ineffabile e invincibile del continuum, ma insieme anche dell’incrinatura, fra un luogo qualsiasi e un altro, così come fra un Io e un altro Io, una parte di noi stessi e un’altra, infine l’al di qua e l’aldilà: fino a identificarsi, tale punto, con quello medesimo di ogni proseguimento esistente fra le cose e, paradossalmente, di ogni distinzione. Si tratta innanzitutto del confine che separa un luogo qualunque del nostro pianeta da quello circonvicino: una nazione dall’altra, l’ovest dall’est, con tutte le conseguenti disuguaglianze politiche religiose e culturali. Numerosi e influenti sono gli scrittori e gli intellettuali che negli ultimi decenni si sono occupati di multiculturalismo, e pertanto del riconoscimento e del rispetto irrimandabile delle identità linguistiche, religiose e culturali delle diverse etnie presenti nelle società odierne (basti pensare in tal senso agli studi sull’alterità della filosofa belga Irigaray; allo scrittore giapponese Ishiguro o ai nostri Giovanni Sartori e Alessandro Del Lago che hanno prodotto profonde riflessioni sulla figura del migrante quale prototipo di esclusione sociale, etc.).
Ed è lo stesso problema quello che dalle radici alla superficie scandisce molta della poesia di Miriam Luigia Binda. Ma anche di confini più impalpabili trattano le elegie di questa poetessa. Quello che caratterizza, per esempio, le comunicazioni fra gli uomini, e il linguaggio e i rapporti quindi con noi stessi e con le cose che ci circondano. La distanza prodotta dalle differenze territoriali e mentali produce sovente scismi e divergenze ulteriori, e stabilisce un’indifferenza di sottofondo che è tormentata via via dallo spegnersi e dal riaccendersi dei contrasti come da una violenza tenacemente quiescente, da una ferocia umana mai ammansita: che negli estremi casi diventano guerra vera e propria. “Viaggiando” scriveva Italo Calvino nelle Città invisibili “ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti”. E non si comprende forse fino in fondo la poesia della Binda, se non si tiene conto di questo stesso ‘viaggiante’ suo sguardo globale, sensibile quindi alle differenze e al multiculturalismo che contraddistinguono ormai senza esclusione le nostre città e la nostra vita. Ogni parola della prima parte di questo libro è caratterizzata da questa sorta di ‘sguardo viaggiante’ di sottofondo; uno sguardo perciò ben attento al problema dell’immigrazione, al terribile contrasto millenario fra le religioni monoteiste, e nel frattempo alla doverosa e rispettosa conservazione da operare verso i miti quanto verso le altrui culture non meno che verso la nostra più propria. “I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo” diceva Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus del 1922.
E proprio scavalcando i limiti di certe logicità linguistiche, ponendo contrasti e antinomie a partire dalla semantica elementare - come solo la poesia sa fare senza imbrogliare tutto -, Miriam Luigia Binda fonda l’intera prima parte di questa sua plaquette sopra una proemiale e ossimorica diade: Divergenze connesse. “Dall’altro lato ho guardato la lunga via”, così esordisce, ”non ho visto la fine. Tu sei uscito / dal mio punto di vista e nella moltitudine / ho perso la tua presenza”.
Il guardare - attraverso questo problematico speculum lirico-filosofico che è Guerranima - sempre si rivolge all’“altro lato” delle cose, all’altro lato delle terre e delle persone e dell’Io, eleggendo presto e tassativamente proprio l’avverbio “oltre” fra i termini-chiave. Un’“impronta sull’uscio segna il passaggio” scrive la Binda “talvolta scava, la solitudine, / solipsismo sorpreso”. Ed è il punto di “passaggio” quello in cui comincia e in cui si verifica l’“oltre”: oltrepassare questo “oltre”, imparare a gestirlo e riconoscere il “fine luminoso, invariabile” che sta al di sotto o al di sopra di esso, è forse la forza gravitazionale che più di altre avvince complessivamente questa poetica: “il respiro di tanti, nel farsi voce / riduce l’altro nel moltiplicarsi, / oltre se stessi, / voi sentite? / Nella mente / è nato il mondo”, dice la Binda. E si insinua dunque, si annida allora un po’ dappertutto la presenza più o meno impalpabile proprio dell’alterità, che può suscitare ostilità e violenza. “Il Mullah suona / il Rebab del martirio / tra le case, la stretta porta / nasconde i fucili di contrabbando. / Sulla strada è un pianto, / ma l’aquilone ha il tuo cuore / bambino mio... / sapessi ho volato con te / tra le sacre montagne ad est dell’Indo”: al di sopra delle nefaste resistenze contro un nemico immanente, volano gli aquiloni dei bambini - che lo sguardo viaggiante dell’autrice rincorre con l’immaginazione attraverso lo stesso cielo pacifico e sacro. Perché, lei insiste, “il traguardo nell’oltre-civiltà / ha un’anima... / la nostra Terra”.
E tuttavia i confini, le dogane, le frontiere, i limiti, in questa età contemporanea e multiculturale - solo apparentemente armoniosa e globalizzata -, si sono ispessiti anziché il contrario: nuovi ragni hanno infatti costruito reti che chiudono gli insetti in cerchi invalicabili. È la rete elettronica, Facebook, il mondo del web: quello stesso mondo che si mostra formalmente privo di confini ma che forse più di sempre confina tutto e noi tutti, allontanando l’umanità dai rapporti più veri e separandola dalla natura e da se stessa. “Gli insetti nel filo della ragnatela / chiusi nei cerchi...” scrive la Binda, pensando al nostro destino di insetti-telematici. Con nostalgia per la vita vera, prosegue: “ti ricordi quando eravamo piccoli? / la luce di un faro, s’accendeva con la manovella a mano / sulla spiaggia c’erano i bagnini / con le canzoni di Don Baki e Celentano / le mamme portavano i bambini / sul bagno asciuga con un pallone gonfiato / (pubblicità Kodak) a strisce rosse e blu / poi sul viso, si stringevano le nuvole”.
Così, mentre “un ragno spaventoso ha un profilo / sopra Facebook / contatti elettronici a sua immagine e somiglianza”, ecco che Miriam Luigia Binda preferisce stare al di qua di questo chiuso cerchio: “nel prato / con la bellezza di un cielo stellato” dove “la ragnatela ha un’armonia / nel suo filo: la fragilità”. Perché nel tempo antico, quello della Grecia antica, di Socrate e poi del pensare pitagorico, molte cose erano diverse. In questo tempo presente, circondato com’è da “profughi che vanno alla deriva”, l’autrice si chiede piena di sconforto: “quanti mondi ci sono al mondo? / Uno, due e tre / il terzo è il più sfortunato. / Non ha pane, non ha acqua / muore in un angolo dimenticato”.
Su questi stessi temi, Miriam Luigia Binda ha variamente riflettuto nel corso degli ultimi anni, e non solo con la poesia. Per esempio durante un convegno sulle diversità-arte teatro che si è tenuto ad Urbino nel mese di novembre del 2012, quando, prendendo spunto da un saggio di Giovanni Sartori intitolato Pluralismo, multipluralismo e estranei: Saggio sulla società multietnica, ha parlato della diversità da un punto di vista interculturale (relazione custodita in appendice al presente volume). Il difficile tema dell’integrazione tra una cultura ospitata e l’altra ospitante è stato il principale soggetto di quella sua riflessione, sviluppata pertanto intorno all’attualissimo problema delle differenze tra usi e costumi diversi, che rendono non facili le integrazioni - anche nei paesi democratici e multi-etnici - degli stranieri. Multiculturalità, dunque, e compatibilità eventualmente possibili, ovvero diversità più o meno amalgamabili, sempre nel rispetto costante e doveroso di ciascun portato storico, sociale e soprattutto individuale: questi sono alcuni dei soggetti meditati variamente dall’autrice e diffusi e affioranti un po’ dappertutto nella sua letteratura e nel suo fare poetico.
Persino il racconto posto in epilogo, e dal titolo suggestivo Foglia / figlia, rampolla sopra questo stesso terreno tematico: “il campo abusivo dei nomadi” scrive Miriam Luigia Binda - introducendo la storia violenta di uno sgombero di clandestini - “era stato definitivamente sgomberato dalla polizia. Ci abitavano nove famiglie zingare con i loro figli ed altri clandestini che avevano varcato abusivamente la frontiera”.
Ecco dunque la voce più eponima di questa Guerranima (neologismo seducente e dai risvolti semanticamente plurimi): “Spirito della terra / azzurro, timido raggio di sole, / in questo giorno / persa... / tra le voci dei clandestini, / in un turbine sovra-umano / l’ignoto sequestra, la paura, / dolore senza pietà / spara contro un nemico / sopravvissuto, non ha chiave / il suo destino è chiuso. / Solo guerra: per te / sarà morte o libertà?”.
Ma sono infine l’amore, l’amicizia, la poesia rivolta ai ricordi personali e alle cose della natura, sono queste le connessioni che possono vincere sulle divergenze. Ed ecco allora affiorare, fra la prima e la seconda parte del libro, da un fondo mitico e mistico queste forze immanenti che le indifferenze e i contrasti riescono a dissolvere: nell’amore e nell’amicizia si prosciuga il dilemma delle disparità socio-culturali e delle contemporanee apatie. “Amico mio / la nostra amicizia / passa l’oscurità. / È una fiaccola accesa / nell’indifferenza del mondo!”, dice l’autrice. E sono l’amore per gli altri, l’amicizia salutare degli animali, la tenerezza suscitata da intimi ed elegiaci accostamenti al mondo, così come la trasfigurazione mitica di storie e di personaggi notori e da non dimenticare, sono questi i momenti che costituiscono e che fondano la seconda parte del libro. Più impressionistiche folgorazioni marcano allora il testo, facendolo balenare tramite linguaggi frondosi e carichi di sentimento. Una voce piena lussureggiante d’amore si slancia adesso nel lavorio del ricordo, nell’incisione di attimi e di personalità memorabili. Ecco allora i canti per la sfortunata Yara - “vorrei figlia mia in un sogno / ritrovar per te la vita!” -, o per il coraggioso Walby novello Ulisse, così come per Pasolini - “sepolto / nella terra liquida /come il petrolio sul pane dei semplici” -, e per i vecchi amici, per i vecchi amanti, dissepolti con le loro azioni minime variamente dalla memoria che un colpo mitizza nel magnificare piccoli e privati riecheggiamenti, e non conserva per sé più nessuna emozione, cantando senza freni, scagliandosi nel cuore fondo della poesia, rivolgendosi quindi ai dettagli della natura, agli uccelli, al mare, alla notte, al cielo, con toni devoti, finanche religiosi nel sostrato, eppure senza mai perdere un ordine complessivo né una limpidezza stilistica fra le radici: come la voce stessa dell’anima quando si abbandona alle cose, sempre più libera da eventuali confini, lontana da guerre troppo umane, spinta oltre le differenze ineluttabili che la Storia e le menti degli uomini hanno scatenato, e più oltre, nel vorticare tumultuoso della vita che passa e che si consuma tra l’indifferenza generale, ma più oltre ancora se è possibile, riuscendo per momenti a distinguere il Tutto in ogni sua parte e ogni parte più piccola del Tutto con uno sguardo liberato e pio.
“I capricci dell’allodola” canta allora Miriam Luigia Binda “salgono nello specchio di un pruno / tra le note di campane. / Non può volare oltre i verdi prati / non ha visto le montagne / ma lungo il fiume... / pensa di essere in Paradiso”.
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